
Nella giuria internazionale della 71ª edizione del Festival di Taormina, appena concluso, c’è un astro che rifulge letteralmente sopra tutti gli altri. E’ quello della magnetica Sandy Powell, costumista britannica tre volte premio Oscar, che con la sua chioma fulva, il taglio androgino e gli outfit sempre più sfolgoranti, ha calamitato l’attenzione quanto ed anche più di molte star presenti. Classe 1960 (anche se la sua classe non è sintetizzabile da nessun numero), Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico per i servizi resi all’industria cinematografica, Sandy Powell non è semplicemente una straordinaria costumista cinematografica con 40 anni di carriera alle spalle e oltre 45 collaborazioni eccellenti. Sandy Powell “è” il cinema, perché, di questo, l’artista inglese declina una delle sue componenti visive fondamentali, quella dell’abito di scena. Perché il vestito, nei film, non è solo elemento tecnico ma essenza pura, imprescindibile personaggio, narrazione che “precede” i protagonisti stessi e che, spesso, recita al posto loro. Per questo il ruolo del costumista non potrà mai essere derubricato a quello di mero esecutore di visioni altrui. L’abito è parte attiva, “divo e primadonna” insieme, ed è lui che comanda dentro la sua dimensione fatta di seta, raso e tulle. Esiste sempre una “regia” silenziosa dietro l’abito, oltre la tecnica, l’artigianato e la creazione. E Sandy Powell è “regista” dei propri abiti, perché sono questi ultimi a “determinare” la personalità dei protagonisti nel momento in cui ne fasciano il corrispettivo corpo attoriale. E forse la prima e più autentica drammatizzazione inizia, per ogni interprete, in quel mistico momento in cui questi, per la prima volta, indossa l’abito del proprio personaggio.
Sandy Powell, dunque, è regista, esattamente come i grandi costumisti che l’hanno preceduta ed ispirata (il Piero Tosi di Morte a Venezia su tutti), proprio come il cugino, il compianto Anthony Powell (anche lui vincitore di tre premi Oscar tra cui quello per Tess). Ma anche se le lezioni dei grandi riverberano inevitabilmente in molte sue produzioni (il fasto storico di Irene Sharaff o di Milena Canonero, l’eleganza hollywoodiana di Edith Head), quello di Sandy Powell rimane uno stile unico e non comparabile con altri, soprattutto in quelle creazioni d’epoca capaci di restituire sia la Storia (Shakespeare in Love, Gangs of New York, La favorita) che le sue “diversioni” più colte, letterarie o, perfino, psicanalitiche (Caravaggio, Edoardo II, Orlando, The Tempest).
A suo agio con la storia dunque ma anche con la modernità (The Wolf of Wall Street), con le morbide atmosfere degli anni ’40 e ’50 (Fine di una storia, Lontano dal paradiso, Carol) e perfino con gli universi fiabeschi (Cenerentola, Il ritorno di Mary Poppins), passando con disinvoltura attraverso le suggestioni gotiche e sensuali di Intervista col vampiro e quelle più thrilling di Shutter Island.
Molta America dunque ma anche, ovviamente, tanta Inghilterra ed Irlanda, quella più problematica e sconvolta da tremori terroristici come in Michael Collins e, soprattutto, ne La moglie del soldato. In quel capolavoro anni ’90 firmato Neil Jordan la giustapposizione fra il tailleur nero di Miranda Richardson e il tubino color oro di Jaye Davidson, non è semplicemente una scelta (mirabile) tesa ad esaltare due diversi aspetti di un’unica femminilità, ma diventa quasi estrinsecazione plastica del conflitto politico che dilania gli stessi personaggi. Una foggia, quella dei due abiti, che diviene miracolosamente sceneggiatura. Con la regia di Sandy Powell naturalmente.
Un film, il suo, che continua ancora nella realtà, su un red carpet (quello taorminese) non così tanto rosso da poterla oscurare. Sandy Powell arriva sul Belvedere di sera, dopo l’ubriacatura di stelle (Bellucci, Burton, Franco) che ha già mandato in delirio la piazza. Elegantissima nel suo abito arancione, un cerino diafano capace di infiammare da solo una passerella apparentemente priva di star. In realtà una delle più grandi star del festival è proprio lei, silhouette quasi aliena piombata sulla Terra e fuoriuscita (forse) dallo stesso universo di Ziggy Stardust (e David Bowie è un’ispirazione fortissima per lei, non a caso lo ha celebrato realizzando gli abiti del cult Velvet Goldmine). Le consegno un ritratto, psichedelico quasi quanto lei, un tributo alle sue forme e ai suoi colori, che lei accoglie con un sorriso largo e sincero e un’eleganza (british) decisamente non comuni. Posa con il mio dono con una grazia coreografica, inglobandolo quasi nella sua stessa figura. Perfino il disegno nelle sue mani sembra essere diventato “cinema”.
Testo e disegno di Andrea Lupo
Fotografie di Danilo Vitale
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