Qual è la responsabilità morale del cinema di fronte alla letteratura? Come può la visione mantenersi etica e rispettosa nei confronti di un magmatico, spesso intraducibile per immagini, materiale di partenza letterario? E’ lo scritto di Marguerite Duras, autrice francese fondamentale del Novecento (Hiroshima Mon Amour, L’amante) a rinnovare l’annosa questione dell’accordo/disaccordo fra cinema e letteratura, di quella auspicabile coesistenza fra le istanze narrative e simbolico-figurative del primo e l’ossequio dovuto a una materia letteraria satura di approcci intimi e visioni solipsistiche (ancora più marcati nel caso della Duras). Prescindendo dai soliti, puntuti paralleli, comunque inevitabili quando si parla di trasposizioni visive di capolavori (tale è considerato “La douleur” tanto nella bibliografia della scrittrice quanto per il secolo letterario ), forse la risposta ai quesiti risiede nella potenzialità -perfino involuta- dell’opera cinematografica di pizzicare anche una sola delle molteplici corde sollecitate dallo scritto di partenza, suscitando in chi guarda ovattati spaesamenti personali e fugaci immedesimazioni dentro l’io del narratore originario. In questo caso fin dentro i solchi di uno strazio evocato più cupamente sulla pagina di questo celebre diario femminile. “La douleur” di Emmanuel Finkel, sapiente intreccio di sceneggiatura fra due biografici della Duras (“Il dolore” e “Rabier” per l’esattezza), è in partenza la relazione intima sopra il privato doloroso dell’autrice (l’attesa del ritorno da Dachau di un marito imprigionato come nemico della resistenza) che si riverbera nella tragedia storica e collettiva (la Francia collaborazionista del 1944, la liberazione a singhiozzo dei deportati, il sentimento che coinvolge l’altra metà familiare della guerra e cioè quella che “attende”). Il tentativo ( va detto, non facile) di rendere la compresenza di questi due registri quale motore di un unico, pulsante corpo cinematografico, capace di procedere fino alla fine nel suo proposito -rappresentare la centralità del dolore – senza smarrirsi troppo per le vie dell’astrazione psicologica o prendendo le facili deviazioni del calligrafismo storico. Rischi questi ultimi che il film lambisce sicuramente ma dai quali, secondo chi scrive, riesce comunque a smarcarsi.
Così se inizialmente il film si “accomoda” sui sentieri ordinari dell’intreccio bellico e descrittivo (le autentiche frequentazioni della protagonista con l’ufficiale della Gestapo, il doppiogiochismo che ne scaturisce) è all’interno di questo che germinano poi interessanti suggestioni melò che renderanno ancora più tormentato il calvario dell’attesa successiva. L’intesa “utilitaristica” instauratasi fra quella Marguerite sottilmente manipolatrice e l’ufficiale Rabier che la crede (o almeno così le dice), scrittrice, innesca evidenti luccicanze erotiche che erodono quasi subito la statuaria fissità di quel simulacro femminile, sorta di monumento consacrato al “douleur” incarnato dalla bravissima Melanie Thierry. Perchè non solo di separazione emotiva si tratta ma anche di una privazione tangibile e carnale, subita dalla donna forse in un momento di aridità emozionale o di rifiuto coniugale e coincidente proprio col più noto dei lutti storici. Una condizione psicologica che il dramma della deportazione amplifica ancora di più e che la fa precipitare progressivamente verso un annichilimento funereo e colpevolizzante. E mentre il film prosegue nella sua vicenda principale, tra storie complementari di assenze e inaspettati ritorni, false informazioni circa i destini degli “altri” e il fantasma di un traditore (mai disvelato), la voce fuori campo della protagonista (tributo necessario allo splendore della scrittura ma forse cinematograficamente rinunciabile) inizia a disgiungersi sempre più dalle immagini e dagli atteggiamenti razionali del personaggio. Le immagini dal canto loro cominciano a sfocarsi e a slabbrarsi, partorendo dinanzi a noi una sorta di doppio “doloroso” di Marguerite, facendo assumere a questo una consistenza fin lì evocata solo a voce, psicoanaliticamente spessa ed emotivamente ingombrante. E la “douleur” finisce così per abitare le stanze dell’attesa, stagliandosi come silhouette davanti alle tende, imponendosi come personaggio, necessità del vivere e “per vivere”, surrogato inesorabile di quella speranza che l’attesa e l’orrore dell’ignoto hanno già mutato in deliquio. Pulsante come un arto decapitato all’improvviso ma per il quale si percepisce ancora il formicolìo e talmente intenso da sconvolgere i piani della razionalità, perché capace di insinuare, come avviene nell’angosciante pre-finale, perfino il dubbio sopra l’esistenza della persona perduta. Una condizione psicologica quella appena descritta che solo l’assenza forzata e il lutto che interessa chiunque creano in coloro che rimangono, si tratti di sopravvissuti alla guerra o semplicemente alla vita. Il dramma storico-biografico de “La douleur” diviene così, per questi frammenti, l’occasione per creare uno scorcio privilegiato sull’Io dell’autrice e, in trasparenza, anche sui dolori che ci riguardano tutti. E’ questa la corda che vibra per noi all’interno del racconto, l’etica giustificazione che permette ancora una volta al cinema di coesistere moralmente con la letteratura. Senza tradirla però, snaturandola o magari pretendendo di sopraffarla, ma pedinandola con discrezione e sempre nella pudica e rispettosa consapevolezza di non poterla riprodurre.
Andrea Lupo
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