Cinema del contagio: IT FOLLOWS

It Follows. Ci segue, anzi ci ha sempre seguito. E’ stato costantemente un passo dietro di noi, l’ombra allungata fino a sfiorare la nostra sagoma inconsapevole. Quel rumore di terriccio pestato che non arrivava mai alle nostre orecchie e, appena percettibile, il fetore di morte in cerca del proprio cadavere. Ci ha sempre seguito e non sapevamo mai chi (o cosa) fosse. Non ne avevamo certezza neppure quando eravamo adolescenti, custodi di verità troppo acerbe per il mondo adulto o troppo adulte per il resto del mondo. Durante quell’adolescenza in cui corpo ci rivelava una storia che la mente non sapeva decifrare e un cuore spavaldo guidava il carro delle sensazioni. Ci ha sempre seguito, tallonandoci sulla striscia continua di drammi invisibili o avanzando lungo i marciapiedi del dolore, sempre abilmente un passo dietro di noi e le nostre piccole, indecifrabili tragedie. Era il crepitio di foglie di un eterno autunno, l’impronta di un orco che gioca a rimpiattino e il respiro che respirava fra i filari frondosi di un viale, nella strada che incrocia il rimorso e il rimosso.“L’ombra-di-una-strega-senza-una-megera-Di’-la-tua-preghiera-prima-che-sia-sera…” recitavano la filastrocche ammazza-mostri, l’inganno dei grandi per lasciarci piccoli e soli. Grazie mamma e papà. Che farsene però di una carezza odor di zucchero se l’ultimo bacio della buonanotte spettava poi al buio sotto il letto? Perché lui, zelante custode di sonni straziati, ci aveva seguito fin là. Lui ci aveva sempre seguito. E il cinema in fondo voleva solo ricordarcelo.

Che cosa ci segue veramente in It Follows? E’ il boogeyman a strisce rosso-verdi acquattato tra il sonno cosciente e la ragione assopita?  Un fantasma blasfemo generato dai sensi di colpa di quei padri che non seppero sorvegliare il proprio paese, lasciando che l’ orco pedofilo (o tre spari sulla Elm Street) generassero l’incubo successivo pagato caro dai figli (Nightmare on Elm Street)? O è forse quel male illogico e oltretombale che rende espugnabile ogni rifugio? Il revenant di una strega con la maschera del Nulla che colpisce chi ha osato oltraggiare rituali di morte col sesso incosciente dell’immaturità (Halloween)? O magari a inseguirci tutti è soltanto la rappresentazione -per immagini, suoni e suggestioni- di un cinema che irrompe con prepotenza dal passato, spettro anche lui confinato nella memoria (cinefila) e visione che da larvale vuol farsi nuovamente materica? Forse la verità è fra tutte queste o magari è tutte queste. Non occorre tuttavia che il regista David Robert Mitchell fornisca a noi una risposta perché quest’ultima è contenuta già nel postulato, in quel “it follows” che opprime la visione e assilla il dopo-visione. Perché qualsiasi cosa (ci) segua in It Follows è sempre ed esattamente quel che noi crediamo che sia. O ciò che abbiamo creduto di (intra)vedere. Dall’inquietudine esistenziale di un’adolescenza mai scrollata(ci) di dosso all’immaturità delle relazioni familiari e sentimentali, dal portato delle nostre scelte sessuali fino all’onere di una colpa (personale? altrui?) che non richiede una prova. La storia stessa di chi da spettatore vive l’horror sottopelle (e non solo su pelle) riverbera già dentro immagini e sensazioni provenienti dallo schermo, assimilate prima nel panoramico del proprio sguardo e soggettivizzate poi nel medesimo DNA. E’ la natura politica e psicanalitica del genere che (ci) ha reso tutti più avvezzi a questi scambi e più sensibili alla fluidità di certe cupe allegorie. Accadeva già nello splendido Babadook, dove l’inconfessabile frustrazione di vivere si riplasmava nelle forme (informi) di un babau partorito tra insonnia, appetiti inappagati ed incubi cinematografico-espressionistici traboccanti sessualità e proiezioni freudiane; lì la memoria storico-cinefila evocata (tra Bava e Dr.Caligari) si liquefava perfettamente in quella della protagonista, rilasciando mostri perturbanti, orrori domestici e traumi psicologici assai più spaventosi proprio perché concretizzabili. Ma non era soltanto il film (o la regista) ad appellarsi a un certo subconscio, ma la mente predisposta già a rispondervi. Quello che potremmo chiamare un mirabile, spaventevole, quanto cinefilo, feedback.  Accade anche (in modo più essenziale e meno spettacolarizzato) con It Follows, adulto horror adolescenziale che fa appello, come il Babadook di Jennifer Kent, a quanto già interiorizzato nel nostro stratificato, densissimo comparto cine-psicologico. It Follows ci segue naturalmente, ma ancora prima ci precede, perché affonda le mani in un immaginario nitido, concettualmente codificato e in apparenza dormiente, che non attende altro che di ridestarsi sotto l’effetto di un bacio (possibilmente putrefatto). Spogliarlo di questa componente (o non percepirla come faranno giovani spettatori amanti del solo jumpscare) significa ridurre il film ad esperienza sterilmente ludica, priva di interesse o di carica rivoluzionaria, ovvero quanto di più lontano rispetto alla sua più autentica essenza. Perché al di là delle maledizioni, del sussurrato coming of age, dei riverenti omaggi ai Carpenter e ai Craven e del sotterraneo assunto meta-testuale (il “ti segue” quale atto di fede implicito e reciproco dell’opera di finzione), il film di Mitchell è davvero un piccolo-grande monolite, piombato giù per zittire un genere e farlo parlare in modo nuovo e diverso. Ed è un voce ( e perfino una musica) del passato che non sta lì a pantografare l’opera (irripetibile) dei maestri, ma che ne mutua piuttosto fecondità, (libero) arbitrio ed eloquenza. Perché quando It Follows parla lo fa con voce realmente moderna.

Che cosa ci segue dunque nell’opera indie e matura di David Robert Mitchell? E’ la messa in scena di una suggestione, l’analisi filosofica su un ’inquietudine adolescenziale e sul suo diretto riflesso socio-politico, ma anche un diario sopra le diverse forme di incomunicabilità, da quella orizzontale-generazionale a un’altra verticale ma inter-generazionale. Un cinico report che tirando le somme sul sesso quale illusoria sorgente di nuove relazioni sociali propone invece, quasi timidamente, l’amore quale chiave di prosecuzione reale delle stesse (in quel finale chiuso/aperto a un tempo). Chi fa sesso nel film contagia (come impone una bizzarra maledizione 6.1), e chi è stato contagiato ha bisogno dell’altro per poter sopravvivere, in un proliferare di reti e significati che cambiano continuamente (infettare chi si vuol bene o meramente un corpo?). Le relazioni giovanili in It Follows paiono sottostare unicamente a un meccanismo coattivo basato su trasmissione e intersecazione, ed è un meccanismo che richiama -neanche troppo alla lontana – le moderne dinamiche dei social network (il “ti segue”, del resto, non è l’irrefrenabile guru telematico del Millennio?) ma non contempla, almeno apparentemente, i sentimenti ( e del resto i social non raffreddano l’emotività reale, sostituendola con versioni più infeconde di empatia distanziata e condivisione sistematica). Parrebbe questa nel film la sola eredità esistenziale lasciata dalla generazione dei padri a quella dei figli (quei rapporti inter-generazionali ancora irrisolti), oltre alle macerie di un fallimento economico di cui i sobborghi di Detroit (splendida scelta scenografica) sono il riflesso più congeniale. Una bancarotta, quella reale della città del Michigan, che precipita le vicende della generazione ritratta da Mitchell in un atipico, e quasi fuori dal tempo, scenario vintage. Là dove i giovani vanno al cinema per vedere “Sciarada” di Stanley Donen con l’organetto a precederne la proiezione, dove di dispositivi cellulari non v’è traccia e le parole di Dostoevskij (non a caso riflessioni sulla morte tratte da “L’idiota”), più che da un e-reader, si sprigionano più romanticamente da una conchiglia di mare. Gli agglomerati sub-urbani di It Follows diventano dunque la proiezione psicologica di un disagio sociale e familiare in cui il rimosso diventa teatro per la vicenda stessa. Basti pensare al primo rapporto sessuale, consumato in macchina non tra i classici filari d’alberi di un boschetto ma dinanzi a un palazzo sventrato e fatiscente. Qui le sole forme di bellezza sono date da quei fiori piccoli e radi accarezzati dopo il rapporto dalla protagonista Jay -sognante e ancora ignara Cenerentola convenuta al ballo sbagliato – o dall’innocenza di un bad boy che palesa la nostalgia di tornare bambino (come confessa il primo ragazzo di Jay durante il gioco del “chi vorresti essere”). Sono flebili indizi e timidi rimandi a qualcosa che i protagonisti (bambini?) hanno irrimediabilmente perduto, segni di un rimpianto collettivo e di una cicatrice ancora pulsante provocata inevitabilmente dai “grandi”. Non è un caso, dopotutto, se alcune delle “manifestazioni” che inseguono i ragazzi ad avvenuto contagio, al di là di alcuni stereotipi horror (la ragazza, il bambino), si incarnino in figure familiari disgiunte dal nucleo stesso (il padre di Jay presente nel film solo in foto, una madre con cui non sussiste dialogo più altre incognite e invisibili proiezioni adulte). Il regista si diverte a suggerire, giocando abilmente con l’arma a doppio taglio dell’indefinito, ma si capisce che quelle presenze non sono buttate lì per puro caso, ma rispecchiano altrovi domestici imperfetti e disturbati quando non, perfino, sconvenienti. Il lascito di coloro che non seppero tutelare il futuro della propria discendenza (la storia si ripete ancora dopo Elm Street) è un’incomunicabilità che mortifica il dialogo e infragilisce i rapporti, rendendo i figli nudi e maggiormente esposti al “contagio”, quando non “spezzabili” come fuscelli di carne (come nella macabra, elegantissima sequenza d’apertura). Magari sembrerà forzata ma resta comunque affascinante l’idea che nel film gli unici luoghi (anche mentali) di ricomposizione di un simile ordine sconvolto siano legati all’acqua, metafora amniotica di un ritorno all’origine (e dunque dell’azzeramento di tutto, di proprie colpe o altrui responsabilità). It follows si apre con una fuga verso il mare e una confessione d’affetto al genitore prima della mattanza, e si chiude con un altro luogo acquatico (la piscina d’infanzia) in cui la resa dei conti familiare assume i contorni violenti di un’aggressione. E anche se gli esiti sono differenti e speculari (morte nel primo caso, sopravvivenza nel secondo), non è inconsueto assumere che quel tendere dei protagonisti verso una dimensione liquida e quasi in sospensione, sottenda il desiderio di annullarsi (ritornando a farne parte) in quella natura primigenia che li aveva respinti. It follows denuncia l’impossibilità di preservare luoghi (ma anche spazi cinematografici, quelli che siamo obbligati come spettatori a setacciare in ogni angolo), l’implacabilità di qualsiasi contaminazione e perfino il fallimento degli originari nuclei sociali. In fondo non è che una versione più disillusa (e senza lame) di uno slasher, dove a muovere le gesta di un assassino ritornante, più che la vitalità incontenibile degli adolescenti, è piuttosto la loro stessa frustrazione e il senso di inadeguatezza generale.  L’horror, con It Follows, torna dunque ad essere genere foriero di letture sociali, politiche e psicoanalitiche. Torna a farsi storia che ne sottintende altre, a farsi leggere tra le righe, spostando in avanti asticelle percettive, facendo dibattere, provocando divisioni e graffiando. Torna ad essere materia cinematografica di studio, piacere della narrazione, omaggio al passato incurante delle mode, metafora possente e dolorosa e perfino spasso, specialmente quando si prende gioco dello spettatore con la sua sciarada fradicia di sangue che restituisce senso al cinemascope (e a tutto ciò che vi sta dentro). Con It Follows insomma l’horror torna a inseguirci. Che poi non è tutto ciò che abbiamo sempre desiderato?

 

Andrea Lupo

 

 

 

 

 

 

 

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