L’aratro di Nolan e il bisogno di “TENET”

Tenet, ovvero “regge”, “governa”, “guida”. Simbolicamente l’ultima opera di Christopher Nolan, il “primo” vero film in uscita dopo il lockdown (o durante una delle sue imprevedibili tappe), regge le sorti dell’industria, ne governa le modalità di azione/fruizione ed inevitabilmente diviene guida per tutto ciò che (av)verrà dopo. Ed è già, a prescindere dalla sua accoglienza critica o dal successo (quello che avrebbe potuto ottenere e quello che effettivamente avrà) un monumento palindromico sul destino della settima arte, esattamente come la sequenza dei cinque caratteri che va a costituire il criptico titolo. Ci sarà dunque, al di là dell’annunciata inversione del tempo che costituisce il fulcro narrativo del muscolare noir, quella commutazione tanto attesa intorno alle nostre abitudini di visione? Verrà arrestato finalmente quel pericoloso fenomeno di assuefazione che ha fatto dei film un’emissione monocorde di immagini eiettata verso la massa inerte e non invece l’oggetto di un flusso circolare, di quel processo esperienziale cioè dentro il quale la massa diviene controparte “desiderante” (ridiviene, in buona sostanza, “pubblico”)? A pochi giorni, ore e minuti (qualcuno giustamente li conta già, anche al contrario) dall’uscita “duemila-evento” di quest’ annus horribilis è tutto ancora nebuloso e, giustamente, appena ipotizzabile. Chissà, forse tutto è già avvenuto in qualche multiverso(-inverso) nolaniano dove massa e pubblico sono grandezze corrispondenti e non  dimensioni contraddittorie (nell’attuale universo non-inverso le moltitudini umane si addensano o si sfaldano secondo pigra convenienza e convenzione piuttosto che per paura). Di certo l’inversione, quella cinematografica almeno, è già avvenuta da tempo ad opera di questo talentuoso (e scaltramente “esibizionista”) cineasta inglese dalle salde convinzioni registiche e l’invidiabile capacità auto-rigenerativa. Il suo cinema, odiato ed amato in egual misura dai critici, è un solco già segnato nella terra dal suo aratro-macchina da presa, una fenditura profonda dentro la quale è possibile proiettare con audace naturalezza ossessioni personali di matrice matematica, fisica, temporale e filosofico-esistenziale. Freddo per molti, forse perchè l’autore stesso, una volta generato quel cinema, lo osserva con distacco scientifico e razionale.

E’ tutto già raccontato nel cinema di Nolan oppure tutto ancora da esplorare o magari da far semplicemente riaffiorare (come i ricordi di Memento, intrappolati dentro una zona d’ombra, una dissolvenza forse, che si fa già materia onirica e cinematografica). Narrazioni che si incuneano dentro le luci nette e abbaglianti di notti eternamente bianche (Insomnia) o che attraversano quelle morbide ma “false” del teatro (The Prestige), giusto per raccontare gli infiniti sentieri che portano alla disgregazione dell’Io (il poliziotto di Al Pacino, l’illusionista Christian Bale). Inversioni anche qui,  etiche (da poliziotto a criminale) o morali (l’illusionismo che contamina il reale, fagocitandolo in un caso o disintegrandolo nell’altro), esercizi intellettuali sul doppio che rappresentano, ancora una volta, un duplice, antitetico modo di (ri)percorrere quella fenditura. Del resto che cosa rappresenta tutta la trilogia del Cavaliere Oscuro se non l’ennesimo viaggio di sgretolamento/compattazione dell’identità di Bruce Wayne, ove l’inizio (Begins) e la fine (Il ritorno) figurano come estremi psicologici (e forse perfino percorribili inversamente, dall’imborghesimento-pacificazione dell’eroe fino alla ri-esplorazione del sé) di un tormentato processo di rehab? In mezzo a loro sta la parentesi più psicotica del cinema di Nolan, quell’atto secondo in cui abita molto più di un cavaliere oscuro (non solo Batman ma anche Joker, Due Facce e tutte le figurine politiche corrotte e corruttibili come da catalogo noir), e in cui Nolan sembra volontariamente arrestarsi a metà di quelle acque limacciose, col Joker eternamente consegnato all’ambiguità del suo patologico fermo immagine e il regista imprigionato nel coagulo delle sue nevrosi.

Inversione identitaria da un lato ma anche, dall’altro, di tutto ciò che vive intorno ad essa. Ecco allora Inception, Interstellar e Dunkirk, tre declinazioni differenti per mettere in scena il fenomeno creativo, l’edificazione dell’Evento e perfino la sua alterazione. Cardioversioni cinematografiche quelle citate che incidono su materie (quasi) impossibili da governare come i sogni, lo spazio-tempo e perfino la Storia (che in fondo, per come viene raccontata in Dunkirk, è letteralmente rimodellata e dunque reinventata dinanzi ai nostri occhi). E se nei primi due titoli i movimenti di azione o retrocessione prendono forma attraverso le visioni, mediante cioè scenografie che sono proiezioni plastiche di puri concetti (le architetture modificabili e le matrioske strutturali di Inception per i sogni, l’ipercubo che innesca la comunicazione fra diverse dimensioni in Interstellar), in Dunkirk (probabilmente il più umanista fra i film di Nolan) il paesaggio (la scenografia cioè) rimane quello immutabile e già cristallizzato dalla storia, mentre il “movimento” è dato dal tempo, estensione e reinterpretazione nolaniana fatta di scarti che restituiscono, più che l’ovvia veridicità storica degli eventi, l’autenticità emozionale interna ad essi. Oggi con Tenet (22 anni fa a dettare le regole era Following che giocava con la stessa idea di frammentazione-manipolazione) il cinema di Nolan ritorna su se stesso (o magari si inverte nuovamente), tracciando un nuovo solco che in fondo è il medesimo di sempre. Sembra recare con sé, fin dalle poche immagini che trapelano dal trailer, brandelli appartenenti alle narrazioni precedenti (ossessioni identitarie e familiari, deframmentazioni del Fato collettivo che si riverberano negli ipercubi del destino individuale) ma anche immaginazioni più grandi dell’IMAX, nere e potenti utopie, un nichilismo strisciante. Sembra tutto già noto ma forse non lo è (o non è ancora stato). Chissà.

E’ comunque già questo “TENET” proveniente da un passato che si ipotizzava diverso, un palindromo inscritto in un quadrato, forse lo stesso quadrato del Sator che detta legge e mistero da secoli (e che sicuramente Nolan già conosceva). L’iscrizione sopra recita  “SATOR, AREPO, TENET, OPERA, ROTAS” che può tradursi approssimativamente come “Il coltivatore (creatore?) regge l’aratro”. Non sappiamo più se sia l’autore a guidare lo strumento o se invece sia l’aratro a determinare l’opera del coltivatore. Ma la croce centrale del misterioso quadrato rimane sempre “Tenet” (guida) e tanto ci basta per restare già affascinati, rapiti e predisposti alla visione di questo nuovo (già insoluto?) enigma escheriano.

Non importa chi guida e chi è trasportato; ci basta il viaggio.

Andrea Lupo

 

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