Inizia da un foro scavato nel muro questa magnifica opera seconda di Emma Dante (al cinema “Via Castellana Bandiera”, al teatro tutta l’intensità di una carriera, compresa la pièce teatrale da cui è tratto il film). Piccole mani perforano con insistenza il cemento, liberandolo dai detriti in cerca di luce esterna, calore e una panoramica sul mondo. Narrativamente siamo già dentro la storia, tra le mura di casa Macaluso con le sue orfane, piccole donne che campano affittando stormi di colombi ammaestrati. Metaforicamente siamo già dentro il cinema, tradotti prepotentemente nel suo bel mezzo attraverso quell’embrionale cono di luce che si fa strada nell’ombra; uno squarcio sul mondo che resta fuori (e che non vediamo) e insieme un presagio sulle ombre che si annideranno dentro le anime. Emma Dante da subito crea un occhio attraverso quel buco, dotando fisicamente la casa delle cinque sorelle di quello sguardo che altrimenti non potrebbe esistere. Il suo gesto iniziale è un atto creativo, significante e “materno”, ed è attraverso di esso infatti che nasce davanti a noi la madre delle ragazze. Da quell’istante la casa diviene protagonista, quel genitore assente che cercavamo con la mente. Da quel momento possiamo scrutarne gli interni vuoti, le stanze da cui la vita è fugacemente uscita e quelle altre in cui la vita delle “piccole persone” (come i colombi) scorre ancora indifferente, udendone gli scricchiolii e l’ovattato vocio esterno che risuona attraverso finestre rotte. Quel cricchiolare è la voce di una genitrice, il rumore della sua apprensione per le figlie e insieme il canto del suo inevitabile chetarsi. Perché una madre non può impedire al mondo di girare né alle figlie di girare con esso, condividendone il sole, gli spruzzi d’acqua, le risate, la danza, i baci rubati, i kinder in riva al mare, il rossetto di troppo e i versi di poesie sussurrate dentro. Non può fermare la vita e la tragedia che spesso incombe su di essa, né intervenire su quelle primavere interrotte prima della fioritura, sotto il sole di un giorno praticamente perfetto.
Raramente il cinema italiano è stato capace di condensare un poema generazionale così autentico, vivido e struggente dentro una narrazione di “soli” 94 minuti. Così come di rado accade che una storia dalle coordinate emotive temporalmente e geograficamente distanti (Palermo, anni ’80, periferia popolare) riesca a farsi largo con tanta dolcezza, discrezione e insieme durezza dentro l’animo dello spettatore, scorticandone intere regioni della memoria e del vissuto personale, facendolo sentire nudo di fronte all’inesorabile crudezza del tempo che avanza. Che riesca ad essere, in una parola, quel cinema universale che ogni storia anela di divenire. Già perché il film di Emma Dante, al di là della perfetta drammaturgia (scandalosa l’assenza di un premio a Venezia 77), di una recitazione “naturalistica” (il cast è splendido e perfetto) e della ricercatezza visivo-sonora (il primo “atto” è un’iniezione continua di esuberanza musicale, anche quando la musica non è presente), è un luogo dove tutti abitiamo già, un’estensione cinematografica della nostra esistenza, quella in cui albergano sempre (e per sempre) cordoni ombelicali, sogni smantellati, contrizioni ed anche “assenze” ingombranti e cannibaliche. Non è necessario però che tutte le vicende si somiglino per poter essere accomunabili; basta solo che le vibrazioni prodotte siano le medesime. Spazio e tempo sono le coordinate di un destino che ci accomuna alle sorelle del film (rendendole a loro volta “nostre sorelle”). Sono queste le grandezze spietate e non misurabili che ghermiscono i cuori e stritolano le carni anche dopo che la vita si è presa (quasi) tutto. Da un lato sta quindi il tempo che scorre parallelo alle vite deprivandole degli affetti. Di fronte v’è invece lo spazio, sia quello occupato dai “reperti” di quell’affetto che diventano più pesanti del granito (come gli oggetti in una scatola), che l’altro lasciato vuoto e immacolato (come la carta da parati che viveva dietro una credenza). Un film sul dolore “Le sorelle Macaluso“, ma non necessariamente un film addolorato o smarrito nel compiacimento della sua (necessaria) rappresentazione. Piuttosto un cinema innamorato di ogni segno, sia tangibile che invisibile. Degli spruzzi d’acqua gioiosi e della pioggia su una bara, del sole come dell’ombra, dei dolci divorati come fiele o di un piatto rotto e ricomposto. Ma innamorato anche del silenzio, dell’assenza e del ricordo. Un cinema innamorato perché potentemente generativo e silentemente materno, abbracciato alle piccole persone che racconta. Esattamente come una madre (natura) che non fa nessuna distinzione sui propri figli. Un atto del cuore da vedere e custodire.
Andrea Lupo
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