“L’origine del Presagio”- Nomen OMEN Femen…

Il diavolo al cinema non fa più paura. A condannarlo a una simile sorte sono stati, solo di recente, i pessimi esiti artistici di titoli come “L’esorcista del Papa” o il dittico di “The Nun”, i cui demoni ipercinetici sembrano essere stati concepiti più per intrattenere adolescenti in astinenza da cinecomics che gli appassionati del genere in cerca di (briciole di) brividi sinceri. Messo all’angolo da jumpscares, scricchiolii di membra (dei riposseduti) e tarantolate camminate su per muri e scale (ahi quanti danni quei minuti recuperati dalla director’s cut de “L’esorcista”…), il diavolo oggi se ne infischia pure di mettere lo zampino sui set, guardandosi bene dall’ inseminarli con quelle morti accidentali “sospette”, capaci, un tempo, di impressionare i faciloni e far vendere in egual misura. Neppure il pur bravo David Gordon-Green (sua la trilogia qualitativamente “in crescendo” di Halloween) è riuscito far esalare al suo “L’esorcista- il credente” quel po’ di respiro mefitico in cui tutti speravano. L’atteso sequel del capolavoro di William Friedkin si è rivelato infatti operazione riuscita solo in parte: efficace sul piano narrativo e citazionistico, discretamente abile a solleticare con il gioco del non detto, ma purtroppo incapace, sul piano squisitamente horror, di condurre la sua doppia possessione infantile anche solo alla metà del livello di disagio suscitato dal capostipite. Un peccato perché la conclusione, beffarda al punto giusto, non era neppure così malvagia (anzi sì..).

Ma se il diavolo al cinema non fa più (molta) paura, che cosa resta da fare a questo povero Belzebù e alle sue fedeli legioni di demoni oltre ad infestare le solite corde vocali infantili e provocare contorsionismi artropodi, così come negli ultimi vent’anni di filmografia “posseduta”? Un suggerimento sembra provenire da questo “The first Omen-L’origine del presagio”, prequel del cult “Il presagio” di Richard Donner (1976) e nuovo horror demoniaco uscito con aspettative (di pubblico e critica) pari a quelle di un qualsiasi prodotto straight-to-video, almeno fino alla visione del bellissimo teaser trailer. Sulle note della cupa “If i had a heart” di  Fever Ray scorrevano all’indietro immagini vaghe, eleganti ed evocative che hanno fatto immediatmanete “sospettare” che, forse, ad attenderci stavolta non c’era nulla di accostabile allo scialbo remake del 2006, “reo” di aver affossato la memoria dell’originale. Sospetti per fortuna fondati. Sgomberiamo dunque il campo da ogni possibile equivoco. “The first Omen” è, senza mezzi termini, il miglior horror della stagione insieme a “Talk to me”. E le ragioni di una simile sentenza (inappellabile per chi scrive) stanno essenzialmente nel “manico” con cui una simile operazione è stata -splendidamente- condotta (da una esordiente, Arkasha Stevenson, tanta tv e qui al primo film). Perché tutta l’architettura del film – al di là della natura prevedibile e “debitoria” di prequel che ne giustifica produttivamente l’esistenza- straripa di motivazioni, propositi e desiderio inequivocabilmente autoriali e personali. Che per l’horror demoniaco ormai in crisi di idee equivalgono a una boccata d’aria mefitica (appunto) oltre che, naturalmente, a preziosissimi suggerimenti su come trattar “bene” il Male al cinema. Vedere per credere.

Il film è ambientato negli anni ’70 a Roma, fra gli stessi notturni che un ignaro Gregory Peck percorreva all’inizio del film di Richard Donner per andare a prelevare da (insospettabili) suore il futuro Damien, “rimpiazzo” del figlioletto nato morto. C’è Roma dunque, centro delle istituzioni politiche e della cristianità (cioè i due pilastri del potere più sotterraneo e pervasivo), ma ci sono anche infuocate proteste di strada, una survoltata atmosfera giovanile e perfino, a insaporire il tutto, perfino la magnifica disco anni ’70 della Carrà (e chissene se “Rumore” sarebbe uscita solo tre anni dopo!). E no, First Omen non è un film pretestuoso o “passatista” come certi snob già dicono, ma soltanto un film rispettoso ed “esatto”, una pellicola dal sapore quasi europeo che sa impaginare i suoi intensi 120 minuti con la grana del 35 mm (del resto chi crederebbe mai a un prequel del “Presagio” traslucido e patinato?) ed una sobrietà narrativa e compositiva quasi commovente. E già solo per questo andrebbe amato senza riserve. Ma c’è dell’altro, qualcosa di ancora più insolito e suadente. Ci sono suore che fumano, che alludono al sesso e giocano infantilmente, e ci sono novizie che si spogliano dell’abito per diventare, un’ultima “fatidica” sera, delle vamp fatali e sudate sotto luci afrodisiache e stroboscopiche. Si risvegliano ignare con le ciocche sciolte, come gorgoni dopo una notte di perversioni sfiorate e già dimenticate. Sono allusive e bellissime anche quando fasciate nella loro innocenza (del diavolo) e rimandano ad un immaginario anni ’70 erotizzante ed erotizzato.  poi ci sono i suoni, i sussurri dietro le tappezzerie e le grida delle partorienti, ci sono angeli sospetti che guardano e complottano e i bisbiglii maligni di chi invoca il “non nato” dentro un piano dai rintocchi sempre più sinistri e dalla gestazione quasi nazistoide. E ci sono parti che sembrano possessioni zulawskiane potenti e liberatorie. C’è il cinema insomma. E pure grande.

Più che un vero Maligno qui c’è il male umano, evocazione e congiura insieme, cospirazione terrena che dà libero accesso all’ultraterreno, secondo un disegno machiavellicamente giustificato dal proposito di “servire” il Bene. L’Anticristo, in questo piano, è ciò di cui la Chiesa del Vecchio Ordine (ormai sull’orlo del collasso) arriva a reclamare come presenza tangibile e necessaria, la nemesi che le è indispensabile per ristabilire il controllo su un popolo di fedeli sempre più (s)fuggenti. “Il nemico principale della Chiesa è il secolarismo” dice Padre Brennan all’aspirante suora Margareth, e il suo avvertimento in fondo vale anche oggi, dinanzi alle sempre più dilaganti crisi di vocazioni, rimpiazzate da forme frammentate ed individuali di fede, e ad una polarizzazione sempre più estrema fra ortodossie conservatrici ed un credo scopertamente più “laico” (e dunque pericoloso). Il Diavolo, dunque è il male necessario, e la sua incarnazione non può che essere “maschile”, così come lo sono i centri del potere politico e di quello ecclesiastico. Del resto la vecchia saga di “Omen” da lì partiva (e proseguiva in trilogia), facendo del suo “eletto” una figura archetipica incardinata dentro gli ordini fondamentali di un potere (politico, commerciale, militare) esercitato essenzialmente da uomini. Oggi “The first Omen” più che ricondursi nuovamente a quell’idea, la indaga più in profondità, inventandone, e contestualmente “svelandone”, tutte le implicazioni femminili possibili, quelle che nemmeno David Seltzer (autore dell’omonimo romanzo da cui fu tratto il film con Gregory Peck) ipotizzò. E così ecco che (SPOILER) dall’idea di uno sciacallo partoriente (di cui, nel film del ’76, avevamo intravisto giusto la carcassa custodita nel cimitero di Cerveteri) si passa a quella di molteplici regine madri, a loro volta assistite da solerti e diaboliche operaie in abito da suora, grembi senza colpa (pre)destinati ad un unico fuco Maligno, sacrificabile esattamente come quei feti pietosi nati dagli abominevoli accoppiamenti. Il “666” più che il marchio della Bestia secondo l’Apocalisse di Giovanni, acquista dunque nel film una lettura assai più allusiva, diventando quell’escrescenza identificativa di chi, suo malgrado, è stato risucchiato al centro di un laboratorio teso alla ricerca della “perfezione” razziale e di cui è, semplicemente, una vittima prestabilita (e dal 666 alle sei punte stellate il passo non è così lungo).

Ma il Male maschile, necessario e “rinvigorente” per entrambi i poteri (temporali e spirituali), deve passare sempre attraverso un utero femminile. Può farsi largo dentro di esso lacerandolo con la violenza di una mano artigliata grondante liquidi organici (una delle sequenze più potenti e coraggiose mai viste in un horror recente), o diventare una declinazione “sana”, materna e filiale insieme, dotata di forza quasi “rifondante”. Una nuova trinità tutta al femminile, fatta di “neo-marchiate”, che però non è la scimmiottatura blasfema e capovolta della trinità cristiana, ma, forse, l’allegoria di un diverso presagio, che non risiede più nei palazzi del potere ma vive ai margini e nell’ombra,  saldato unicamente dai suoi stessi affetti. Nomen, Omen, Femen…

E’ questo oggi l’anti-conformismo più temuto dalla Chiesa o dalle istituzioni virili? E’ questa l’accezione di Male che disorienta e, pertanto, va più combattuta? L’intelligente horror della Stevenson non offre risposte, si limita soltanto a suggerire altre domande. Ma Belzebù, ne siamo certi, non è mai stato più felice di essere raccontato così.

Andrea Lupo

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