I 250 anni di Beethoven. Inno alla gioia cinefila

Beethoven e il cinema. O “di quei connubi visivo-sonori che il titano Ludovico Van non avrebbe mai immaginato”. La celebrazione dei 250 anni dalla nascita del maestro di Bonn è l’occasione per compiere un viaggio appassionante e appassionato (e, s’intende, incompleto) fra i saliscendi quasi escheriani di una memoria cinematografica collettiva e personale. Itinerari in cui non è facile stabilire se sia prima l’immagine o il suono a sollecitare le sinapsi cinefile che riportano a galla una determinata sequenza baciata dalla potenza o dalla delicatezza delle note del Ludovico Van. E’ certo però che ogni volta che in un ambiente irrompe poderoso l’An Die Freude ossia l’ode alla gioia, corale capace di far vibrare quasi “organicamente” le masse, la memoria cinefila corre a spalancare porte e finestre, liberando immagini e suggestioni filmiche che tutt’ora sconvolgono per il loro disinvolto contrapporsi. Siamo in un campo di calcio illuminato dai bagliori rossi dell’autunno a portare in trionfo l’amato prof. Keating insieme alla sua squadra di novelli “poeti estinti” (“L’attimo fuggente”) o nel chiuso di un ospedale insieme ad Alex, ex-drugo ingessato fino al midollo che si gode il patto luciferino siglato con il Ministro degli Interni proprio sulle note endorfiniche della “Nona” (“Arancia meccanica”)? Ma, probabilmente, il “dove siamo” non è neanche troppo la questione. A congiungere l’edificante abbraccio con il professore fuori dal sistema e l’orgasmica complicità con il criminale avallato dalle istituzioni sta (ecco la questione) giusto un ponte fatto di crome e semicrome la cui architettura interna è inspiegabile come il mistero stesso e che neppure la psicanalisi saprebbe decifrare. Esiste e travolge, semplicemente. Il cinema, che dell’arte psicologica è “fintamente” servo, neppure ci prova a spiegare il perchè di una fascinazione musicale tanto “trasversale”, capace cioè di veicolare accezioni così contrapponibili di gioia (creativa e positiva da una parte, criminale e distruttiva dall’altra). Gode piuttosto ad impaginare l’eccitazione di quelle note dentro i propri quadri in movimento, a pungolare altri approcci intellettivo-sensoriali e magari a generare in chi guarda (e ascolta) nuove implosioni neuronali. A portare, in una parola, Beethoven dentro luoghi che il compositore non avrebbe potuto immaginare, per poi sprofondare esso stesso tra le pieghe lattee del pentagramma.

Ecce Beethoven. Se non al teatro purtroppo (le celebrazioni dell’importante anniversario cadono, ahinoi, nell’anno più funesto per i palchi) quantomeno al cinema. Ma non tanto quel Beethoven “imprigionato” dentro il classico filone biografico, più occasione di sontuoso intrattenimento che per sentite esplorazioni del suo animo inquieto, collerico e frainteso (da citare, in mezzo a un elenco che comprende parecchi inediti, i godibili “Amata Immortale”, “Io e Beethoven” ma anche l’austriaco “Eroica” del 1950, il Beethoven” di Paul Morissey e, per completezza, un Disney televisivo dal titolo “Il magnifico ribelle”), ma l’altro che attraversa le opere filmiche più disparate, il Ludwig Van incorniciato in scenografie differenti dal classico golfo mistico. Un sottofondo che, a prescindere dall’utilizzo diegetico o extradiegetico della musica nell’opera cinematografica, va oltre il mero accompagnamento e diviene fiero e pieno protagonista della sequenza di riferimento. Impossibile stilare una lista esaustiva di tutte quelle che maggiormente hanno risentito dell’influenza dei suoi spartiti (Imdb riporta una lista impressionante: oltre 1500 le volte in cui nei film ricorrono le sue musiche!). Se ne può offrire però un personalissimo estratto come esempio di gioia cinefila, sollecitando ognuno a cercare nella propria memoria il segmento ideale, magari nascosto fra le pieghe di un film minore o platealmente esibito nella sequenza-madre di un capolavoro. Frammenti sonori che il cinema ha dunque reso più segnanti come, per chi scrive, quel secondo movimento del Concerto n.5 “Imperatore”, adagio un poco mosso delicatissimo e struggente che conduce i momenti più quieti e intimisti del magnifico “Pic Nic a Hanging Rock” di Peter Weir. E’ la musica che accompagna la stasi dei protagonisti e la loro tregua dall’indagine sulla scomparsa delle ragazze, il contrappunto sonoro elegiaco alle note suadenti del mistero (quelle del celebre flauto di Gheorghe Zamfir). Ed è, soprattutto, il motivo che (rac)chiude mirabilmente questo capolavoro, sospeso sulla romantica istantanea di Miranda, creatura definitvamente consacrata all’ignoto e alla paesia della natura.

Non si contano poi gli utilizzi delle celebri quattro note della “Quinta sinfonia”, il cui severo attacco è diventato leit-motiv iconico (e perfino ironico) di un evento dirompente, una sorta di meme pop che tutti intonano a bocca chiusa (e tanti ignorandone l’origine). Eppure la quinta, al cinema, offre molto più di questo. Basti pensare all’uso che la Disney ne ha fatto al principio di “Fantasia 2000”, eleggendo quell’ ”Allegro con brio” a brano che squarcia il sipario della sua seconda incursione sperimentale animata (in modo praticamente speculare al primo “Fantasia” che affidava invece il medesimo compito alla “Toccata e fuga in Re minore” di Bach) fra sciami di farfalle multicromatiche che cercano di sfuggire all’attacco dei loro equivalenti neri. Beethoven (come e più di Bach 60 anni prima) al servizio della Disney e della sua idea di sinestesia, cioè di quella fusione sensoriale fra elementi visivi e sonori che finisce per produrre nuova realtà per noi, il videoclip quasi definitivo. Una realtà animata che finisce per marmorizzarsi dentro il nostro immaginario fino a divenire, secondo alcuni, una gabbia espressiva. Esattamente come accade nel celebre segmento di “Fantasia” dedicato alla Sinfonia n.6, la criticata (dai musicologi però) “Pastorale disneyana”. Eppure a ben pensarci quell’apoteosi di forme bucoliche e silhouettes erotizzanti, i cui movimenti sono allineati fino al millimetro – al costo di qualche taglio di note-  allo spartito beethoveniano (e secondo un preciso conformismo cromatico e razziale), non è importante per ciò che dice ma per come lo dice; non vi sono gli episodi di vita campestre che il compositore aveva sempre inteso evocare con la sua composizione, ma di certo persiste potente quell’idea “scenica” da lui ricercata, e soprattutto resiste il concetto primordiale di sensazione, di quella diluita lungo quadri naturalistici impossibili da scindere, benchè musicalmente distinti, e fruibili solo nella loro totale ed assoluta coesione emotiva. La “Pastorale”, a differenza di altre sinfonie, è meno sezionabile nei suoi movimenti ma è anche, nell’ interpretazione disneyana, percepibile dai più piccini come un unico, fluidissimo movimento di scena. Costituì per molti (come il sottoscritto) una insospettabile porta d’accesso verso la musica sinfonica. Siamo certi dunque che quello di zio Walt, pur tra stereotipi razzisti celati ( la centaura afro che “serve” quella bianca) e repressioni dell’immaginazione, sia stato un così cattivo servizio reso allo spartito del compositore come asserito ancora dai musicologi? Smorziamo la tensione critica tornando alla Quinta Sinfonia e all’arrangiamento popular operato sulla stessa da Walter Murphy: c’è chi Beethoven al cinema lo ricorda nella versione dance presente nel cult “La febbre del sabato sera”e ballato da John Travolta sulla celebre pista dai quadrati illuminati. “A fifth of Beethoven” rimarrà nella storia anche così.

E i “Chiari di luna” al cinema? Sono tante le sequenze che risuonano della più mesta e romantica fra le sonate del compositore (il quale l’aveva titolata semplicemente come “Sonata n.14 in Do diesis” non amando troppo i soprannomi) dedicata alla sua alunna Giulietta Guicciardi. Di certo però non è amore quello che ispira uno dei momenti cinematograficamente più brutali della storia del cinema con la musica di Beethoven (non) protagonista. Parliamo del cult “Misery non deve morire” ed in particolare della punizione che una terribile Kathy Bathes infligge a un indifeso James Caan sul proprio letto di prigionia. “Quanto ti amo!” gli dice al termine dell’ insostenibile castigo, in un parallelo distorto e malato con la dichiarazione di sentimento musicale che continua a scorrere dolcemente in sottofondo. Settima sinfonia, secondo movimento. Allegretto. Scritta così dirà qualcosa solo agli esperti. Ma ripensate un attimo al finale de “Il discorso del Re” quando Colin Firth-Giorgio VI, governando finalmente la sua storica balbuzie, comunica al popolo via radio la decisione di entrare in guerra contro la Germania. In questa preziosa sequenza le note diventano quasi “marziali” e le parole invece ritrovano la scioltezza dello spartito, mentre i due registri comunicativi, entrambi solenni e severi, si sovrappongono e fondono mirabilmente sullo stesso leggìo. Il compositore che aveva vergato gli spartiti per celebrare gli imperatori è ancora lì a segnare altri passaggi cruciali della storia. E il cinema lo rammenta. Ma è bello ricordare quel movimento anche come leit-motiv di un film sontuoso e quasi sconosciuto come “The Fall” del talentuoso regista Tarsem. L’allegretto segna l’incipit di una articolatissima sequenza al ralenti che è anche tributo all’arte nascosta dello stunt-men cinematografico; poi lo attraversa costantemente durante la narrazione impreziosendone i molteplici arabeschi traboccanti di richiami all’arte visiva (Dalì, Escher) e di suggestioni indiane. Un Beethoven mai più così tanto esotico.

E l’elenco potrebbe continuare anche se non è l’elencazione lo scopo di questo omaggio. Beethoven è nato 250 anni fa ma rinasce ogni giorno dentro questi e molti altri motivi che il cinema gli ha amorevolmente cucito sopra (o dai quali si è fatto rivestire). Quel cinema che è nato nel 1895, cioè 125 anni fa (curiosamente la metà precisa di questo anniversario), figlio più piccolo ma non minore della medesima scintilla di genio. Quando verranno celebrati i 250 anni della nascita del cinema, qualsiasi cosa sarà diventata per allora la settima arte è certo già che userà nuovamente quelle note per dar corpo alle sue immaginazioni. Perchè l’umano non è mai stato così vicino all’universale. E il divino non è stato mai tanto terreno. Auguri ancora Ludovico Van

Testo e disegno di Andrea Lupo

2 comments to I 250 anni di Beethoven. Inno alla gioia cinefila

  • Pina saitta  says:

    Bellissima celebrazione del grande musicista. Articolo perfetto sia nel contenuto che nella forma

    • illustracinema  says:

      Grazie mille!

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