Nel magnifico ma poco noto “Sei gradi di separazione” di Fred Schepisi, tratto dall’omonima pièce di John Guare, un giovane e bravissimo Will Smith interpreta il ruolo di un truffatore che si introduce nella vita di una coppia dell’upper class newyorkese colta e (inconsapevolmente?) snob, sconvolgendone “colore e struttura” come in un affresco di Kandinskij (e l’astrattismo nel film non è citato a caso). L’opera teatrale e il successivo adattamento cinematografico traggono spunto da un fatto di cronaca che vide protagonista negli anni ’80 un giovane afroamericano capace di raggirare parecchie famiglie alto borghesi spacciandosi come il figlio di Sidney Poitier. Nel film la coppia Stockard Channing-Donald Shuterland (entrambi straordinari) si lasciano irretire dal fascino di Smith, piombato (non per caso) nel loro appartamento, “armato” di una straordinaria dialettica, una critica inappuntabile sul “Giovane Holden” e naturalmente del nobile lignaggio di figlio d’arte. Ed è proprio quella millantata paternità con l’attore afroamericano, simbolo di lotte ed emancipazione “nera” nella Hollywood degli anni ’60, a fare immediatamente breccia nella coppia, facendo superare d’un balzo – e da entrambe le parti “sociali”- quella rete di collegamenti interpersonali lunga sei persone e che dà il titolo al film. Poitier diviene quindi la carta d’identità eccellente (in verità mai esibita ma neppure contestata dai due) che permette al giovane di accomodarsi in quel salotto, interloquendo in modo brillante e sicuro di arte, cucina, fantasia e altre meraviglie, ovvero di tutto ciò che la coppia fin lì si era “illusa” di conoscere. Potrebbe tranquillamente provenire da qui l’abusata definizione di “radical chic”, applicata all’alta borghesia e a certa politica. Quella vocazione identitaria al velleitarismo (che tuttavia si crede sostanza) sfuggente alle etichette ma grondante ipocrisia (soprattutto culturale) ed essa stessa etichetta.
Tutto questo ovviamente c’entra poco con la biografia reale di Sidney Poitier, monumento attoriale scomparso lo scorso 6 Gennaio, consegnato alla storia sia per essere stato il primo interprete maschile a ricevere l’Oscar come protagonista che per il suo impegno quasi felpato dentro l’industria cinematografica americana in favore della comunità afro. Tuttavia c’entra parecchio con l’icona Poitier, il cui celeberrimo “Indovina chi viene a cena?” (un classico della commedia americana e portabandiera nella battaglia per l’affermazione delle coppie miste) ha forse nel tempo subito il medesimo “smacco” toccato in sorte ai coniugi di “Sei gradi di separazione” (in un certo senso il remake silenzioso del film di Stanley Kramer con Poitier “convitato di pietra”). In quest’ultimo infatti la coppia, scoperto l’inganno ordito da Smith, inizia a rivedere completamente l’esperienza vissuta, smontando l’incanto della serata, ristabilendo nettamente lo steccato sociologico di quei sei gradi che il giovane (Holden?) aveva abbattuto per loro, dimenticandosi in fretta di integrazione, barriere razziali, culturali e sessuali. Financo quella commozione autentica provata davanti al miglior “figlio” che si potesse desiderare anche solo per una sera. Sidney Poitier è quindi – tanto dentro il suo film che quando è surrettiziamente citato in quell’altro e infine nella realtà che oggi ne piange la scomparsa – un’icona destinata, malgrado tutto, a essere fraintesa. Dai radical chic di “Sei gradi di separazione”, “teatrali” ma autentici, fino a quel pubblico che ama farsi avvolgere dai toni concilianti del film di Stanley Kramer ma non rinuncerebbe mai alle comodità di certi pregiudizi epidermici. Avrei voluto dire qualcosa di più su Sidney Poitier ma mi è venuto in mente solo questo. Tuttavia il modo migliore, in mezzo ai tanti articoli che si rincorrono sul web, è far parlare l’attore attraverso il cinema (“La calda notte dell’Ispettore Tibbs”, “I gigli del campo”, “La scuola della violenza”) e l’icona attraverso il tempo. Nelle filmografie consigliate non troverete ovviamente “Sei gradi di separazione”. Eppure questo splendido, misconosciuto gioiello di intelligenza e finezza riesce indirettamente a parlare di Poitier (e quindi di barriere, emarginazione e ipocrisia) in un modo che al vero Sidney Poitier non sarebbe dispiaciuto.
Testo e disegno di Andrea Lupo
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