
La tragica (e ancora avvolta nel giallo) dipartita di GENE HACKMAN, della sua consorte Betsy Arakawa e del cane che viveva con loro, non dovrebbe offuscare il ricordo di quello che è stato un gigante del cinema americano. Perchè Hackman (Eugene Allen per la precisione) non ha “semplicemente” regalato ad Hollywood memorabili personaggi tutti d’un pezzo, ma ha prestato il volto a figure ambigue, caratteri lacerati dal dubbio etico (“La conversazione” su tutti) e villains sorprendentemente accattivanti. Si voleva bene a Gene Hackman, sia quando si è fatto implacabile “braccio violento della legge” che quando ha dato voce al lato più spregevole (“Senza via di scampo”, “Potere Assoluto”) o manipolatorio (“La giuria”) delle istituzioni americane.
Di interpretazioni memorabili è stata piena la sua carriera e, al di là degli Oscar (2 meritatissimi fra cui quello per “Gli spietati”), fra icone da immaginario cinefilo (Lex Luthor, Royal Tenenbaum), eroi dai modi brutali (“Mississippi Burning”) ed anti-eroi disillusi (“Lo spaventapasseri”), è riuscito a fare breccia nei cuori degli spettatori grazie anche a solide figure paterne (il poco celebrato “Conflitto di classe”) e a fulminanti camei (l’indimenticabile, spassosissimo cieco di “Frankenstein Junior”). A legare tutte queste figure c’è sempre stato lui, Eugene Allen, presenza massiccia, volto pacioso e un sorriso sardonico capace di traghettare disinvoltamente (e senza soluzione di continuità) dalle pieghe della commedia fino a quelle del dramma. Raramente l’abbiamo visto scigliersi in lacrime davanti alla cinepresa. Magari, chissà, le riteneva ipocrite quanto quella Hollywood da cui si è licenziato nel 2008. La stessa che oggi, puntualmente, lo (rim) piange.
Ciao Lex…
Testo e disegno di ANDREA LUPO
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