Nel giorno dell’Epifania, tra Re Magi e vecchiette sulla scopa, il mio ricordo va immediato a un’altra vecchina: nonna Coco, protagonista “nascosta” dell’adorabile capolavoro Pixar.
Un ricordo che coi dolci e l’ultimo giorno delle festività natalizie ha poco a che spartire. Perchè “Coco” è il film Pixar che ci obbliga a dialogare con la morte, affrontando il più doloroso dei temi umani non nel momento diretto del trapasso ma nella fase successiva della memoria. Un cartone che vive dei colori accesi che i vivi hanno dato ai morti (in quel Dia de Muertos ove tutto è fiori, cibo, candele e ofrenda sulle lapidi) e sa giocare col macabro delle spoglie terrene nella giusta misura “infantile”. “Coco” parla di morte usando i calaveras messicani come unico tramite possibile. Umanizza i resti, tibie, femori e casse toraciche in allegra scomposizione (non decomposizione), per costruire un’ avventura accessibile a tutti. Poi però riconsegna le divertite spoglie a quella soglia da cui sono venuti, oltre un fantasmagorico e ultraterreno ponte di petali che è il corrispondente di quello umano fatto dai parenti in vita. Giusto affinchè quei resti non vengano considerati da tutti noi l’unica -o l’ultima- “cosa” possibile. Perchè alla fine conta la memoria, l’ispirazione, l’istinto musicale e “mi familia”, anche quella con cui dobbiamo battagliare per far sì che le scarpe non prevalgano sulle chitarre. Nonna Coco è quell’ispirazione da seguire, il petalo dimenticato, “mi familia” che ci segue anche quando l’abbiamo lasciata per seguire un altro sentiero. L’importante, come insegna il film Pixar, è “ricordare” (remember me), anche in extremis, poco prima dell’oblio. Per dare, ove possibile, un senso compiuto all’esistenza. Almeno quella a cui è possibile dare ancora un senso. Per poter amare e poterci amare di più. Perchè ricordare è più di tutto “esistere”.
Un petalo per Nonna Coco.
Disegno di Andrea Lupo
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