The Last Duel, la donna vince fra i duellanti

C’è qualcosa di cinematograficamente avventuroso ed entusiasmante nella carriera di Ridley Scott (27 lungometraggi lungo i suoi 44 anni di attività, praticamente un film ogni anno e mezzo), giunto alla soglia degli 84 con una voglia ancora inesausta di filmare e soprattutto di esplorare nuovi generi (a Venezia 78 ha dichiarato che nel suo programma sono previsti almeno un western e un musical). Avventuroso si diceva anche perché quella carriera è stata battezzata proprio dal duello-ossessione fra i due ufficiali napoleonici narrato nel seminale “I duellanti”, pellicola tratta da un racconto di Conrad e diventata negli anni l’archetipo cinematografico del concetto stesso di sfida su grande schermo. E al netto della magnifica ricostruzione storica, di due perfetti e all’epoca lanciatissimi protagonisti (Harvey Keitel e Keith Carradine) e di una vaporosa fotografia che storicizzava, rendendola iconica, ogni inquadratura, è proprio la sfida proveniente da quel film ad essere diventata negli anni una linfa vitale per il suo autore, l’ossessivo nutrimento di ogni avventura successiva. E’ un cinema che non conosce soste quello di Scott, autore che si è “liberato” subito del fardello del capolavoro inanellandone almeno tre ad inizio carriera (oltre al citato “I duellanti” ci sono ovviamente “Alien” e “Blade Runner”), oltre a cult (“Legend” ma soprattutto “Thelma & Louise”) e cinema “alimentare” di alta qualità ( “Black Rain”, “Il gladiatore”, “Le crociate”, “The Martian” solo per citarne alcuni). Da almeno un ventennio il regista inglese può quindi permettersi, con una superbia tutt’altro che senile, di tornare a frequentare territori già esplorati ripensando i generi da lui stesso affrontati, come fa quando ripercorre in modo interstiziale – e rischioso- il suo stesso “Alien” (“Prometheus“) o quando rifonda il film storico con iniezioni di steroidi e sterzate stroboscopiche (il peplum rivisitato de “Il gladiatore”). Il tutto dentro quel sistema hollywoodiano che ha accolto benevolmente tanto fervore creativo anglosassone in cambio del patto silente dell’incasso, e soprattutto con la garanzia di portare sullo schermo un solido e duraturo prodotto finito. Non è un caso se gli attori, dopo l’esperienza d’esordio, tornino a lavorare con Scott con regolare ciclicità (Crowe, Fassbender e Damon fino al Driver cooptato nella stessa stagione proprio per “The Last Duel” e il prossimo “House of Gucci”), consapevoli di mettersi nelle mani di un cineasta dalla visione magniloquente e soprattutto coerente. Un autore a tutto tondo, capace di restare grande anche quando gioca col minimalismo (“The counselor”, “Il genio della truffa”, “Tutti i soldi del mondo”).

The Last Duel”, ultima fatica del regista – purtroppo poco ripagata dal grande pubblico- è, fra tutte le recenti texture del grande arazzo di Scott, probabilmente una delle più importanti da lui firmate e le motivazioni vanno, in equo bilanciamento, dal cinematografico al tematico. La vicenda narrata, solo in apparenza virile e “muscolare”, riguarda la rivalità fra Jean de Carrouges e Jacques Le Gris, scudieri normanni accomunati da un medesimo destino storico ma divisi dalla diversa fortuna sociale. Il primo (Matt Damon, ruvido e ignorante) è un solido uomo di guerra e d’onore che crede nella spada e nel matrimonio (o, meglio, nella concezione dell’epoca dello stesso). Lo scudiero Jacques Le Gris (Adam Driver, colto e mellifluo) è invece uno stratega di corte, meno abile in battaglia ma più astuto nel tessere la sua rete di fedeltà nei confronti del conte D’Alençon. Quest’ ultimo (Ben Affleck, mai così albino e odioso) è a sua volta il libertino compagno di scorribande di Le Gris ed è altresì cugino del re Carlo VI, intollerabile giovinetto dallo sguardo stolido e supponente. Questo il quadrilatero maschile e spietatamente maschilista che accerchia fino al soffocamento la docile e fiera Marguerite de Thibouville (Jamie Comer, fulgida e bravissima) sposa con dote di De Carrouges e oggetto di attenzione da parte di Le Gris, nonchè centro della contesa che dà il titolo al film (il corpo a corpo che decreterà, secondo la volontà di Dio, da quale parte si siano schierati la ragione e il torto). La miccia originerà da un’accusa di stupro nei confronti di Le Gris, divamperà quindi in una squilibrata controversia giudiziaria gestita dal Re e culminerà infine nel cruciale duello, apoteosi di quel fatalismo divino che nel basso Medioevo ingrigito da melma e superstizione offriva comode soluzioni politiche alle questioni dando la stura agli istinti popolari repressi (la massa imbelle continua a subire le imposte plaudendo però ai roghi).

Cinema importante quello di Scott in “The Last Duel”, perché capace di rinvenire all’interno di eventi storici solo in apparenza distanti le risonanze problematiche ed irrisolte del presente e di restituirle in tutta la loro cristallina ambiguità (l’ossimoro non è a caso) attraverso il ricorso a un interessante gioco prospettico/cinematografico. Strutturato in tre atti che sembrano richiamare i passaggi processuali del dibattimento in aula (e non semplicemente i tre differenti punti di vista forniti dai protagonisti), “The Last Duel” muove la narrazione partendo dalla versione/visione del rude De Carrouges, quasi una fase preliminare ed introduttiva del procedimento stesso. E’ qui che vengono (dis)posti i semi della storia attraverso la definizione del dualismo maschile che la muove da dentro e soprattutto qui iniziano a delinearsi le dinamiche di un antagonismo latente, in cui lo stupro assume le fattezze di un pretestuoso casus belli che esaspera una preesistente rivalità. La violenza di Le Gris ai danni di Marguerite è, per restare nella metafora “processuale”, ancora priva di una sua istruttoria (e infatti in questa fase viene solo raccontata), mentre l’unica “dichiarazione spontanea” è data dalla sofferta confessione resa dalla donna al desco familiare, fra lo sguardo privo di empatia della suocera e l’altro (inaspettatamente) comprensivo del consorte. E’ quando si passa alla versione di Le Gris (seconda fase del dibattimento) che vediamo lo stupro materializzarsi davanti alla “corte” (il pubblico) e palesarsi tanto nelle sue dinamiche fisiche quanto nei luoghi della consumazione, il tutto attraverso il filtro degli atteggiamenti tenuti dai due protagonisti dell’evento (occhio alle sottigliezze disseminate anche negli sguardi). Ma è un’istruttoria però che porta dentro i segni palesi dell’ambiguità, che veicola stonature dentro le sfumature riferite nel racconto e che evoca gli spettri di una infatuazione fin troppo “letteraria” per essere pienamente credibile. Le donne, i cavallier e l’arme vi sono sempre, ma l’amore qui pare più un dubbio intorbidito dalla vanità mascolina. Le Gris è sì attratto da una donna colta e avvenente (nella misura in cui egli ritiene anche se stesso tale). Ma il suo possederla con forza è veramente il gesto di un amante disperato o magari solo l’appropriazione indebita di un corpo sublimata in passione amorosa (cioè niente più che la proiezione fisica di un coito meramente individuale)? Le impalcature iniziano a sgretolarsi fra le pieghe di un atto e l’altro e poco prima dell’ultima fase (esito del dibattimento e insieme Testimonianza e Verità di Marguerite) le maschere dei futuri duellanti si crepano già sotto il nostro sguardo perché insufficienti a coprire la realtà degli uomini che le indossano. Strutturalmente incapaci di reggere lo sguardo di quella controparte femminile che invece cresce di intensità e verità (malgrado tutte le edulcorazioni del caso).

Il terzo atto del film è quello che sancisce finalmente la Verità e in cui si afferma il femminile in tutta la sua limpida e rigogliosa attendibilità. E’ il mosaico finito di una donna che mira al compimento del suo essere in mezzo a costoni umani (fatti di uomini ma anche di donne) imbevuti di prepotenza e supposizione, opportunismo e acquiescenza. Lo stupro di cui è vittima, al di là del reale scaturente dalle testimonianze o dai resoconti soggettivi, è soprattutto un evento realistico, definito proprio dalle coordinate precedenti ed è questo probabilmente il portato più interessante del film, quello che lo eleva al di sopra di ogni semplice “trasposizione” del metoo in un contesto da Guerra dei Cent’anni. Marguerite coltiva l’indipendenza e questo, probabilmente, è l’atteggiamento più irritante per la limacciosa morale dell’epoca abituata più ad addomesticare che a comprendere o codificare. Ecco allora che la verità che Marguerite promuove attraverso se stessa va ben oltre i confini processuali, prescindendo da tutti i concetti di “prova” o “testimonianza” possibili, rimessi comunque a uno stucchevole (pre)giudizio maschile e, in ultimo, al Maschile “divinizzato” (chiamato Dio per convenzione). E’ l’identità che intende farsi largo nel tumulto, acquisendo lo spazio coltivabile del diritto al dissenso e al rifiuto, ben più importanti di qualsiasi terreno di dote sottratto da logiche di convenienza. Lo stupro più che reale, si diceva, è realistico, proprio perché non unicamente atto individuale ma in qualche misura sociale e collettivo; a quello di Marguerite prendono parte non solo l’aggressore diretto (Le Gris) ma anche il marito, la suocera, la confidente. E’ un evento unico (ma dagli effetti continuativi proprio come accade oggi) che, nelle intenzioni di chi lo nega o invita a sconfessarlo, reitera un codice di condotta consolidato ed odioso. Rispetto a questo la protagonista è chiamata ad ergersi a Figura. Non più moglie ma Donna, stretta fra due simboli fallici e bellici insieme (esattamente come nella splendida locandina originale). Granitica e ieratica naturalmente ma anche pietosamente impaurita dallo spettro di quella Pulzella d’Orleàns che nessuna donna dovrebbe essere chiamata più a re-incarnare.

Cinema americano mainstream certo, per la presenza di un cast altisonante, l’egida di una produzione imponente e per la firma del suo titolato regista. Ma anche cinema sorprendentemente europeo, sebbene più facilmente soggetto a fraintendimenti critici (e i più puntualmente l’hanno “bollato” o promosso a metà) e destinato, probabilmente, a non lasciare il segno nella stagione dei premi (anche se la Comer sarebbe meritevole di nomination all’Oscar) e nonostante il nitore critico e riflessivo di cui è dotato lo ponga già fra i migliori lavori del suo regista. E “The Last Duel” del resto è già una sorta di summa del miglior cinema di Ridley Scott. In esso riecheggiano infatti le grandi ricostruzioni storiche degli ultimi anni (il modello principale è il rigore visivo e formale de “Le Crociate” anche se il circenses del finale evoca una versione più sporca e demitizzata dell’arena  de “Il gladiatore”) e riluce, attraverso il personaggio della Comer, una nuova figura di eroina che entra di diritto nella gallery dei personaggi femminili delineata negli anni dal regista accanto alla Ripley di “Alien”, alla Moore di “Soldato Jane” o all’altra Moore di “Hannibal”. Ma è soprattutto a “Thelma & Louise” che corre il pensiero durante la visione di “The Last Duel” e a quell’evento (lo stupro) che accomuna idealmente le due pellicole. Esattamente come loro Marguerite è una creatura di carne e orgoglio, messa all’angolo da uomini piccoli e da ancor più miseri codici comportamentali che non ne contemplano una (diversa) voce. «Quando una donna piange così non si sta divertendo affatto!” urlava trent’anni fa Louise poco prima di mirare al petto dell’uomo che aveva messo giù Thelma sul cofano di una macchina. Quella rivendicazione pronunciata prima dello sparo (che segnerà i destini delle due amiche almeno quanto quello del cinema femminista di sempre) in “The Last Duel” si trasforma nell’unica ricerca di soddisfazione possibile da parte di Marguerite verso gli uomini e il sistema: prima quella processuale e “fisica” nei confronti dello scudiero e, obliquamente, l’altra soddisfazione “morale” nei confronti del marito. E’ quello interiore di lei il duello che fa realmente palpitare il terzo atto del film, interamente segnato non solo dall’ angoscia per quel suo destino incerto legato agli uomini e al fato ma soprattutto dallo svelamento del reale che è sempre stato dietro tutte le sfumature intraviste. Ed è un “reale” il suo che intenerisce e procura a tratti dolore ma che rende ai nostri occhi la figura di Marguerite ancora più statuaria e significativa, incapace com’è di soccombere alla mediocrità coniugale e a tutte le sue odiose propaggini sociali. Il potere degli uomini alla fine trionfa, la folla acclama e il sistema celebra urlante il proprio immobilismo. Ma a vincere il duello in realtà è la vita, la potenza generatrice, la mater, la donna non più degna di attenzione a fine contesa. Colei alla quale lo sguardo tenacemente femminista di Scott regala una calda, corroborante tela finale che risplende già di una sua intensa, vitale modernità.

Andrea Lupo

 

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