Da tempo la politica italiana ha cessato di essere specchio (anche deforme) del paese per ridursi più miseramente a uno sterile specchio di sé stessa. Non più il riflesso della società fuori ma l’immagine imprigionata dentro, palindromi istituzionali bloccati in uno stallo che non manifesta segni di vera progressione (o progressismo). Bello sarebbe stato poter definire autorevolmente i nostri parlamentari come i “delegati” degli elettori, destinatari di un mandato popolare “in bianco”. Figure alte incaricate di essere fotografia reale del paese e altresì figure “altre” capaci di traghettarlo al di là di quelle colonne d’Ercole ideologiche che lo imprigionano. Ci si era quasi riusciti a Novembre 2020 quando il DDL Zan era stato approvato a maggioranza dalla Camera. Ma ci si è impaludati nuovamente a fine Ottobre 2021, quando la famigerata tagliola al Senato ha segato definitivamente le gambe al provvedimento. “E’ così che muore la libertà: fra scroscianti applausi!” avrebbe commentato amaramente la principessa Amidala di Star Wars se fosse stata presente alla seduta. La principessa quel giorno non c’era ma gli “scroscianti applausi” sì (e, per restare dentro la metafora di Star Wars , c’erano pure i Sith). Ma a cosa serve questa premessa verbosa e politica rispetto alla recensione? A fini meramente critici forse nulla. L’accostamento però fra quel vergognoso episodio camerale e “da camerata” e la potente pacatezza delle immagini del documentario “C’è ancora un soffio di vita” di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, dice bene dello scollamento esistente fra la vita reale del paese e quella (pre)giudicata fra gli scranni vellutati di Palazzo Madama, dove ancora c’è chi osa distribuire quote di dignità ai concittadini in misura diversa e diseguale, arrogandosi presuntuosamente di rappresentare l’anima etico-sociale dello stivale attraverso ideologie egoiste ed ammuffite. L’accostamento insomma è politico, nella misura in cui l’ultimo cantone di resistenza nei confronti di ideologie grette o immobili (come quella che ha affossato il suddetto DDL), è quello della cultura in generale e del cinema in particolare; e il documentario, prima ancora che un genere cinematografico, è un atto squisitamente politico.
L’esistenza miracolosa (e miracolata) di Luciano Salani, Lucy, trans più anziana d’Italia e sopravvissuta a Dachau (dove fu deportata come soldato), è oggi, né più né meno, quella di una nonna qualsiasi, alle prese con spesa, il caffè al mattino, i medicinali da prendere, gli amici, le piccole passioni (i documentari astronomici, i film di fantascienza moderni). La normalità dei suoi gesti quotidiani oggi è la medesima di ieri, quando Luciano faceva la vita, si innamorava degli altri e del sesso, inventava poesie dolci e irriverenti (il titolo “C’è un soffio di vita soltanto” viene proprio da una delle sue composizioni), decideva di farsi un “buco” lì dove una natura bizzarra e incurante gli aveva messo altro e diventava di fatto Lucy pur restando anagraficamente (e orgogliosamente) Luciano. Ma la sua esistenza all’epoca era giudicata scomoda e condannata da un regime mostruoso, e ancora prima dalla politica e dalla morale. Tutto questo mentre sullo sfondo molti preti rompevano silenziosamente il patto di educatori religiosi fatto coi bambini per diventare cultori feticisti dei loro corpi (l’episodio delle molestie subite da Salani quand’era ragazzino, più che testimonianza di un trauma insuperato, pare la presa d’atto di una dissoluzione già in corso e a cui la stessa guarda oggi con disgusto e stanchezza). Luciano (del nome va fiera e non lo cambia perché è quello datole dai genitori che ritiene sacri) nella sua carne reca ferite non cicatrizzabili oltre a quelle che lo accomunano a tutti noi. Sono celate nella memoria di ogni solco di pelle, rimandano a voci spettrali che sussurrano la notte attraverso il filo spinato stretto intorno al cuore e si alimentano del ricordo di automatismi “lavorativi” orrendi e coatti, legati all’opera di smistamento di cadaveri cui era obbligata nel campo di lavoro vicino Monaco. “C’è ancora un soffio di vita” è la chiosa finale di una delle sue poesie irriverenti e divertenti (recitate ancora con lucida, trascinante partecipazione) ma assume anche, per chi oggi ascolta e mette insieme i pezzi, una sinistra risonanza quando si accosta a una delle rimembranze più tremende: c’era un soffio di vita soltanto in quei corpi che non erano ancora cadaveri ma che la pratica dell’orrore gli imponeva di smistare sbrigativamente nei forni.
Il flusso di questi ricordi, insostenibili ma forzati conviventi, si attiva in modo straordinariamente fluido attraverso le figure amiche che accompagnano la quotidianità di Lucy e non è mai sollecitato da una camera fissa o attraverso un’intervista frontale. Non c’è alcuna pretesa insomma nello sguardo dei due cineasti ma solo una domanda silenziosa e sospesa la cui risposta dalla protagonista può arrivare anche dopo aver tagliato i pomodori o aver calato la pasta per un amico. Ed è una risposta sempre lucida e straziante, resa con una compostezza saggia e perfino arcaica, che non ha bisogno di immagini di repertorio per farsi più completa perchè è essa stessa testimonianza e nuovo repertorio. E questo racconto del dolore, cui l’unico conforto possibile è il suo riconoscimento dentro una tragedia collettiva, condivisa e non rinnegabile, riecheggia in un altro resoconto, quello del lutto sordo, più anonimo e privato, per la perdita di una figlia. Non una figlia biologica ma una emotivamente autentica perchè cresciuta come tale. Perché si può essere serenamente genitori anche se si è trans; perché l’amore filiale è prerogativa del cuore anche prima di quel corpo capace di generarne un altro.
Il mondo di Lucy, dopo la Tragedia, è fatto di silenzi rotti per lo più dalla quotidianità dei pasti con gli amici e degli incontri con gli assistenti. Ed è una normalità, quella ritratta dai registi, così lieve da farsi “miracolo” (quanta tenerezza in quelle mani nodose che scartano i dvd di “Independence day” e nei suoi occhi desiderosi di essere sorpresi da visioni di fanta-avventura lontane dalla realtà). Miracolo della resistenza ovviamente ma anche, e soprattutto, dell’esistenza. Di quell’esistere “prima”, nonostante la sofferenza e la Tragedia, e di un esistere successivo, dopo l’intervento di riassegnazione sessuale. Quel vivere per sé naturalmente ma anche per gli altri, perché Lucy è un’amica preziosa per chi ha la fortuna di averla oggi e di questo affetto il documentario non è che un sobrio, delicato testimone.
Il silenzio di Lucy e il baccano dei “grandi elettori” che affossano i diritti civili fra scroscianti applausi. Basterebbe la contrapposizione evocata ad inizio articolo per elevare il documentario a manifesto (anche se non è questo il fine a cui l’opera di Botrugno e Coluccini mira). Eppure “C’è un soffio di vita soltanto” riesce ad essere moderno e contemporaneo anche quando si limita, attraverso foto intraviste appena, a interrogare il passato di una Lucy giovane, disinibita e in qualche modo già “libera” nel suo stesso tempo seppur tampinata da una morale ipocrita e invadente che voleva sollevarle impudicamente la gonna per vedere cosa avesse “lì”. Una deformità morale che da allora si è fatta pensiero popolare, consolidandosi nel corso degli anni in mostruosità domestica e familiare e infine in reazione sociale (non solo verbale ma anche fisica). Un allattamento ideologico di cui l’Italia, per generazioni, non si è mai voluta liberare. Perché cosa c’è di diverso fra quella società che, prima dell’entrata in guerra, si arrogava già il diritto di violare (perché di violenza si tratta) l’altrui individualità e l’ attuale che si rifiuta di riconoscere l’identità all’interno del genere (e dunque pretende ancora di sollevare quella gonna)? Il ritratto intimo di Lucy (luce non a caso, perché “taglia” con dirompente semplicità quella coltre di inutile chiacchiericcio che solo gli ipocriti spacciano per “essenziale”) si fa quindi ancor più potente dentro il disegno storico e tragico che la comprende. E quelle immagini di repertorio astronomiche (pianeti, eclissi) e biologiche (la riproduzione cellulare, il feto) che intervengono fra i macro-blocchi del racconto accompagnati da suoni “industriali”, non sono solo metaforici segni di interpunzione dentro una grammatica del racconto mirabilmente asciutta, ma divengono estensioni dello stesso e riportano questa semplice ma straordinaria biografia dentro l’eternità di un più vasto ciclo naturale e vitale. Quel ciclo che minuscoli uomini (e uomini minuscoli) si illudono ancora oggi di poter governare dimenticandosi che l’unico controllo possibile e sensato resta quello delle proprie pulsioni egoistiche. Perchè nessun essere umano su questa terra può permettersi di rivendicare diritti che non lo riguardano su destini che non gli appartengono. La Arendt parlava della banalità del male, di come la normalità possa ciclicamente e quasi docilmente farsi “serva” delle peggiori azioni. Questo toccante documentario ci dice invece quanto il bene non potrà mai essere banale e quanto complessa possa essere ancora la strada verso il suo raggiungimento.
Andrea Lupo
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