- NOPE. Un “NO” convinto e tipicamente slang. Ma, forse, anche la crasi fra “NO” e “HOPE”, negazione di una possibilità, abbandono di speranza. L’ultimo film di Jordan Peele naviga- o, più correttamente,”plana” dato il tema alieno- fra la spigliatezza leggera dell’entertainment e la gravità della riflessione sociale, quella a cui il regista ci ha abituato fin dall’esordio “Scappa-Get Out” (sul lato ipocrita, reazionario e schiavista dei sistemi democratici) e a seguire con “Noi- US” (il classismo degli United States eretto sul sacrificio dei deboli). Quelle usate da Peele a mo’ di architravi ideologiche del racconto sono grandi metafore, tanto più esibite narrativamente quanto più ritenute urgenti e necessarie, soprattutto dentro un Presente-Mondo sempre più dominato dai reset delle coscienze e dalla perdita di memoria storica (anche quella a breve termine). No Hope, si diceva, non perchè non sia possibile alla fine salvarsi (le storie di Peele trovano tutte, in maniera diversa, un lieto fine per i loro protagonisti), ma perchè l’uomo è condannato a replicare ciclicamente i meccanismi di prevaricazione politica e sociale a lui più congeniali, quelli dentro i quali convergono, attraverso forme solo apparentemente progredite, niente più che gli istinti fondanti e ferini della propria (non mutabile) natura. Dopo il tema della sopraffazione razziale che sfocia in nuovo impulso cannibalico e quello dell’occultamento sociale dello spurgo americano (la parte scomoda, deficitaria e disgraziata degli U.S.), Nope si offre allo spettatore quale contenitore tematico altro rispetto ai due (episodi) precedenti, e narrativamente ambizioso per il modo in cui le sottotracce prescelte si stratificano e, progressivamente, si rivelano allo spettatore. Un altro oggetto cinematografico (nonchè cinefilo) prezioso all’interno della ormai ben delineata dissertazione teorica condotta da Peele all’interno dei generi.
Di cosa parla dunque NOPE? Di oggetti volanti naturalmente. UFO o magari UAP, nuova sigla che sta per Unidentified aerial phenomena (Fenomeni Aerei non Identificati) coniata per comprendere non solo i classici dischi volanti ma qualsiasi manifestazione aerea (anche non solida ma semplicemente luminosa) scientificamente inspiegabile. Avvistamenti del primo tipo ma anche, prima della abduction da quarto tipo, “miracoli cattivi”, così come li chiama il protagonista O.J. riferendosi all’episodio tragico che ha mutato il corso esistenzial-economico della propria famiglia. Ma Nope parla soprattutto di gabbie, di predatori/predati e di animali. Ogni capitolo in cui è scandito non a caso reca il nome di un animale protagonista del corrispondente segmento narrativo. Ghost, Lucky, Gordy, Jean Jacket. Due cavalli, una scimmia e una creatura aliena dalle forme cangianti e il mimetismo strategico. Ciascuno di essi marca territorialmente le tappe di un racconto che, per stile, procede in modi sempre più western pur restando prepotentemente dentro lo sci-fi e che, giocoforza, si fa ancora più ruvido, fisico ed incalzante. A quelli elencati va aggiunto poi un quinto animale, il “cavallo in movimento” che apre e chiude il film, esperimento fotografico di Eadweard Muybridge che ha dato i natali alle prime sequenze cinematografiche della storia della Settima Arte. Il regista intreccia questa suggestione storico-cinefila con le vicende dei due protagonisti (fratello e sorella, tenutari di ranch che imprestano i propri destrieri ai set cinematografici per sopravvivere), creando un ponte temporale in cui la purezza delle prime sperimentazioni visive si riverbera sul mestiere di O.J. Quest’ultimo è infatti, insieme alla esuberante sorella Em, l’erede del fantino di Muybridge ma è anche il custode dell’eredità paterna, dell’intesa fra uomo e natura e del patto silente fra vittime e predatori. L’unico personaggio, fra quelli appartenenti alla micro-umanità modesta e un po’ anonima inquadrata da Peele, capace di fronteggiare la minaccia del predatore alieno, intercettandone le sottigliezze comportamentali “animali” e utilizzandole poi come strategia difensiva (“non guardarlo negli occhi” si ripete, quasi un rovesciamento di senso dei signs di Shyamalan che sollecitavano invece l’atto del guardare).
“Nope” sceglie dunque, quale terreno del proprio gioco, quello dell’invasione aliena, anche se le regole adottate per condurlo sembrano mutuate dall’etologia e dal ciclo predatorio. Non è un caso se tra i modelli di riferimento prescelti via siano quelli spielberghiani de “Lo squalo” (come ignorare le affinità fra le famose botti del capolavoro di Spielberg e i gonfiabili di Nope, usati come elementi “rivelatori” della presenza aliena?) e de “La guerra dei mondi” (le ramificazioni umane del film con Tom Cruise omaggiate nella cascata di sangue che piomba sulla casa padronale). E come nel modello spielberghiano de “Lo squalo”, in cui il Leviatano proveniente dal mare si faceva metafora punitiva delle responsabilità di guerra (e poi dell’ansia imprenditoriale e divoratrice dei magnati delle spiagge), anche in NOPE il famelico disco piomba su quel deserto come contrappasso simbolico delle colpe dell’uomo e della sua mai doma tendenza a intrappolare e assimilare l’elemento animale. Perchè, che si tratti di ronzini dentro i recinti, di esche esibite in gabbie di vetro o, più simbolicamente, di immagini animali imprigionate dentro uno zooprassiscopio di fine ‘800, l’uomo non fa che reiterare nel tempo la medesima volontà di ingabbiare e dominare tutto ciò che è sfuggente e naturalisticamente libero. E questa spinta a sopraffare (darwiniana e predatoria) in NOPE si sposa e rafforza con l’ossessione scopica (tipicamente umana) di addomesticare, attraverso le immagini, anche l’oggetto che le produce.
Tutto il film allora diventa (anche) narrazione di questa ossessione, riflessione su un istinto divoratore (connaturato all’uomo stesso) che genera nuovi appetiti (la fama ne è giusto la declinazione più moderna). Dalla genuinità delle prime immagini del cavallo di Muybridge (immortalato all’epoca per testimoniare l’esatto movimento delle zampe al galoppo) si giunge un secolo dopo alla loro corruzione, con le creature animali -il primate Gordy, alieno anch’esso ma all’interno di un contenitore televisivo- totalmente svuotate e investite di un altro senso. Conciato con abiti civili e costretto a “scimmiottare” l’umano come da copione, Gordy è il prodotto esasperato di quella pulsione, mentre il suo sfruttamento televisivo (lo apprendiamo dalla mortificante sequenza del compleanno) è già una ridicolizzazione pop impacchettata ad uso e consumo del pubblico familiare. La triste vicenda di Gordy non dà inizio, come invece altrove, a nuove albe di civiltà, ma genera soltanto, all’indomani della violentissima esplosione, un’altra deviazione, soprattutto per il giovane protagonista del format, unico incolume fra i sopravvissuti della strage televisiva. Jupe (asiatico, straniero e dunque alieno in terra americana, forse riconosciuto da Gordy come animale dentro la medesima gabbia tv) diventa abile sfruttatore di fenomeni e capo di un parco di divertimenti formato Far West (il Jupiter’s Claim). Anche lui, pur toccato dalla tragedia e forse inebriato di segni “divinatori” (la scarpa sospesa) si fa partecipe della medesima mentalità (americana?) colonizzatrice, atta più ad appropriarsi di un fenomeno piuttosto che a comprenderlo o a schivarlo (a fini di sopravvivenza).
Dopo quella sanguinosa deflagrazione (neppure troppo immaginaria visto che Peele si è ispirato alla tragica storia dello scimpanzè Travis che contribuì a far cambiare la legge sul possesso di animali in America) l’ossessione scopica degli anni ’90 sembra uscirne comunque confermata o perfino rinsaldata, almeno per ciò che concerne il ruolo del contenitore televisivo, quello che legittima (o delegittima) i contenuti visivi. Non è un caso quindi se nel film lo show di Oprah Winfrey viene costantemente citato dalla logorroica protagonista Em quale luogo ideale per la condivisione del contenuto “catturato” (il cosiddetto Oprah Shot). Quello di “Oprah” anzi parrebbe essere l’unico contenitore moderno in grado di conferire veridicità alle prove stesse e, contestualmente, di attribuire riscatto sociale a due anonimi afroamericani.
Fra la “legittimazione” del salotto di Oprah e un web affollato di contenuti visivi falsi o interscambiabili, resiste poi la zona franca del documentarismo, forse l’unico discendente nobile delle immagini di Muybridge. Ad incarnarlo come suo pioniere nel film c’è il borioso direttore della fotografia Antlers Holst, quasi una versione light del colonnello Kurtz. Meno epico ovviamente ma analogamente “bruciato” da un’eccessiva esposizione alla luce (non solo dei riflettori) e dalla visione ossessiva dei filmati di predatori. Peele gli riserva l’uscita di scena più assurda ed iconica ma anche quella più coerente con la sua riflessione sul potere (e conseguente dannazione) delle immagini. Perchè, che cosa c’è di più teorico della fusione simultanea fra carne ed immagine, quando la prima non riesce più a catturare il mistero della seconda? Ecco perchè filmarsi nell’atto estremo di essere predati diventa sì gesto folle e definitivo ma anche, a suo modo, catartico e liberatorio. L’ossessione scopica incontra la cinefilia e il risultato non è che luce, buio e infine morte.
Riflessioni audaci queste ultime che magari vanno oltre le reali intenzioni del suo autore ma che “Nope”, dall’interno della sua struttura lucidamente (e ludicamente) sci-fi, genera o semplicemente stimola proprio grazie alla sua natura di film-contenitore, opera basica e al tempo stesso stratificata in cui le immagini si prestano a molteplici interpretazioni/deviazioni di senso. E che Peele ragioni proprio sulla visione non è difficile dedurlo dato che lavora proprio sulla demistificazione di alcuni topoi visivi del genere. Dal classico cielo stellato, privo della rassicurante epifania spielberghiana di luci e suoni fino alle nuvole, colte nel loro banale e angosciante ruolo di “mascheramento” dell’evidenza. E perfino il look della navicella aliena (disco volante piatto e dalle forme platealmente vintage) sembra piazzato lì giusto per portarci abilmente “fuori zona”, disorientandoci prima con quella visione “ordinaria” e codificata e spiazzandoci poi con una seconda del tutto inedita, inusitatamente floreale e assassina.
NOPE il film si comporta esattamente come le immaginazioni in esso presenti. Vive dentro la calma apparente di quella nuvola ma è pronto subito a sferrare stilettate di cinema teorico per poi nascondersi nuovamente dietro le forme del cinema di genere o le mentite spoglie dell’entertainment. Un grande film sul conflitto fra uomo e immagine, fra la morbosità dello sguardo che tutto capitalizza e la purezza di chi resiste scegliendo di “non guardare”. Fra il cavallo di Muybridge e il fantino del finale ci voleva Peele per condannare l’atto del “vedere” proprio dentro quel sottogenere (il cinema degli alieni) che si fonda su quell’atto. Rimane solo un dubbio e sorge immediatamente dopo i titoli di coda, quando fa capolino la pubblicità di “Jupiter’s Claim” il parco dei divertimenti del cinico Jupe di prossima apertura negli Universal Studios. Stoccata finale del regista alle major che lucrano su tutto o epocale presa in giro nei confronti degli spettatori? La risposta (forse) è nelle nuvole…
Andrea Lupo
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