Bohemian Rhapsody, in difesa di un biopic “infedele”

 

Ci sono modi differenti e per lo più critici per approcciarsi a questo biopic-drama dedicato al genio di Freddie Mercury e alla rock-band che ne derivò. C’è quello dei musicofili che spulciano meticolosamente ogni licenza narrativa portata su schermo (dalle improbabili rotture interne al gruppo fino alla rivelazione cronologicamente “anticipata” della diagnosi di AIDS) mettendo in evidenza tutti i limiti derivanti dalla compressione temporale degli eventi e dalla disinvolta -quanto inevitabile- semplificazione narrativa sugli stessi. Poi c’è l’approccio “ideologico” che denuncia una visione edulcorata e sessualmente “sostenibile” del personaggio, inizialmente inquadrato come etero e successivamente quale figura “traviata” dagli incontri occasionali e dalle bad fellowship, concause queste ultime che avrebbero esposto lo strabordante singer nato coi quattro incisivi in più al fatale contagio da HIV e da lì alla morte avvenuta nel 1991. Sulla graticola finisce anche la sequenza di un “ravvedimento operoso”, avvenuto in corner poco prima del Live Aid e siglato dalla presentazione ufficiale dello storico compagno di Freddie (Jim Hutton) alla famiglia, sequenza-contrappasso che andrebbe a “bilanciare” quasi lo sguardo “colpevolizzante” sulla condotta del cantante. Infine sta il biasimo di chi denuncia il mancato capolavoro e rileva a sostegno della propria delusione l’impossibilità di ricondurre l’intero ensamble narrativo a una biografia (o un docu-drama) dal fulcro ben definitivo. E’ un film sui Queen o sul singolo Freddie Mercury? E’ sul processo creativo-discografico di una hit (Bohemian Rhapsody) o solo il pretesto per una scaletta entusiasmante ma ragionata di classici della band (con qualche omissione che pesa come l’assenza di ogni riferimento a “Flash Gordon”)?

Tutte visioni legittime naturalmente e probabilmente anche fondate critiche, perché del resto un singolo film (e neanche due come già si vocifera) non riuscirà mai a restituire fedelmente tutta la dolorosa complessità di un tale personaggio, il suo barocco temperamento e quella sua fame compulsiva di musica, arabeschi e skin e, soprattutto, di un palco al centro della terra. E se risulta difficile centrare un focus cinematograficamente realistico – men che mai definitivo- su Freddie Mercury la ragione risiede probabilmente nella sua fantasmagorica personalità, imperscrutabile a tratti proprio come l’oscuro testo di “Bohemian Rhapsody”. E’ lì che il cantante di origine parsi (Farrokh Bulsara il suo vero nome) ben 43 anni fa sintetizzava emblematicamente allusioni, confessioni e aspirazioni, diluendo sospetti riferimenti autobiografici in un fastoso caravanserraglio musicale dove l’opera fa l’amore col rock, il diavolo incontra l’invocazione religiosa (Bismillah) e il pianto, seppur autentico, rimane impertinente. Galileo Figarò Magnificò...

Sfuggente rimarrà Freddie (o forse così semplice ed argentino da risultare inaccettabile) e irrisolto di conseguenza qualunque biopic che intenda fissarne per noi l’immagine. Fallimentare sol perché prova a canonizzarne la figura a beneficio dei più ed incapace di rendere quella febbrile aspirazione di uomo a dileguarsi dietro la pantomima (“Behind the curtain, in the pantomime” geme il cantante nel testo di “The show must go on”) perché il senso della maschera, si sa, lo custodisce solo chi la indossa. E allora perché questo “Bohemian Rhapsody”, nonostante le critiche sensate, le analisi plausibili e quell’allure da film “facile” e popolare (neanche fosse un demerito voler ampliare il raggio del proprio impatto) funziona così bene? Proprio perché, a parere di chi scrive, è fatto della medesima “pasta” del personaggio che racconta, così ben modellato intorno alla percezione traslucida e basilare che di Freddie abbiamo sempre avuto da esserci già divenuto maledettamente familiare. Non tuttavia ritratto bensì effigie di quella “Freddie-personality” che tracimava dai palchi, dalle riviste e dai videoclip, tra piumaggi, ancheggiamenti e un’estensione vocale di quattro ottave. Fermarsi pertanto alla semplice analisi biografica, con puntuale denuncia circa l’assenza di un punto di vista “autoriale” (come invece nel Jim Morrison ritratto da Oliver Stone) e piccate segnalazioni sugli errori “storici” o qualche goffa rivisitazione dei fatti, finisce per diventare operazione tanto scrupolosa quanto sterile ai fini del giudizio complessivo (e castrante nei confronti del godimento medesimo).

Appurato infatti che non è la fedeltà storica l’intento principale del regista né, tantomeno, l’”alto” proposito di restituire attraverso Freddie un affresco del tempo (al grigiore britannico degli anni della Thatcher non è fatta la minima allusione), resta invece irrobustita a fine visione l’idea che Brian Singer abbia voluto costruire intorno a Mercury la sua personale, graficamente ipersatura (fra colori e suoni) e indiscutibilmente pop idea di celebrazione dell’icona stessa. Cucendo la medesima non soltanto intorno al personaggio ma settandola sulla propria visione (come fatto già coi “suoi” X-Men), arrivando a trasfigurare gli eventi biografici  fin dove possibile per finalità conciliatorie (il delicato coming out davanti alla comprensiva- su schermo-famiglia di Farrokh che non avvenne mai ma diviene proiezione di quella auspicabile) o smaccatamente celebrative (le divisioni interne alla band, nella realtà decisioni di comune accordo, utilizzate per rafforzare il mito di una Queen che si rinsalda dopo le burrasche). Reinvenzioni popular come si diceva, intorno alle quali ricucire e rilanciare un mito (se le presero pure Peter Schaffer e Milos Forman in altri tempi per ridisegnare il loro “Amadeus”), proprio come avviene dentro un fantasy, un videoclip o, più appropriatamente (visto il regista), un cinecomic. Siamo sicuri però che tutta questa libertà interpretativa sarebbe dispiaciuta davvero al diretto interessato? A chiarezza della tesi (del sottoscritto s’intende) si riguardi il video della hit “I was born to love you” del 1985 in cui Freddie Mercury amoreggiava incontenibile con la sua partner femminile saltando dalla cucina al talamo col petto sempre bene in vista. Negli stessi anni in cui i tabloid scandalistici pubblicavano i suoi scatti rubati dentro i leather club lui, fra sintetizzatori e luci flou, non esitava a inscatolarsi come prodotto “virile”, vistosamente falso come il diamante di una regina baffuta e gioiosamente incurante della contraddizione sessuale in atto (e aggiungeremmo altresì ben lontano dall’automortificazione sessuale di Jimmy Sommerville nella coeva Smalltown Boy ). “Gay come una giunchiglia” ammiccava dalle interviste. Del resto i fiori si schiudono solo quando lo decidono loro no?

Mercury era uomo nel suo profondo con pieno diritto ad amare incoscientemente (e l’altrettanto pieno diritto di infischiarsene di stitiche leggi inglesi che depenalizzavano lentamente l’omosessualità altrui). Ma era anche – e “I was born to love you” né è una prova- l’artifizio di se stesso. Allo stesso modo “Bohemian Rhapsody” di Brian Singer (all’attivo anche I soliti sospetti, L’allievo e Operazione Valchiria) è probabilmente il cine-videoclip mainstream di questa necessaria pantomima. E qui a bottega ce lo prendiamo esattamente per quello che è. Splendido come una giunchiglia gialla e rosa (i colori preferiti di Mercury e non a caso anche quelli prevalenti nella locandina).

Contraddizione vivente che si è fatta arte (per bohemièn silenti ma sessuati) assumendo le forme dell’opera tragica. Vellutato melodramma tempestato di rubini che la vita (non i vizi e neppure la condotta) si è voluta riprendere a metà della candela. Mito che consacra l’uomo alla storia sottraendo la star alle sirene dell’ imborghesimento. Freddie è sicuramente molto più di quello che è mostrato nel film, ma è anche, innegabilmente, quello. Il Freddie che generazioni precedenti hanno amato per motivi trasversali e che oggi, complice il film, torna ad essere adorato da vecchie e nuove folle, secondo quel processo di ciclica rinascita (la prima era avvenuta poco dopo la sua morte nel 1992) imposto dalla fenice del logo da lui stesso disegnato. Brian Singer, omosessuale dichiarato, non fa mistero di voler imprimere al suo Mercury lo stimma di un nuovo freak, di un altro bidimensionale ma più esplicito X-Men. Per far questo si permette allora di imbrigliare un po’ le carte, giocando di citazioni cinefile (lo scetticismo dei radiofonici e tutta la sequenza con Mike Myers in barba ad ogni veridicità), facendo risuonare pezzi ancor prima che siano stati composti (“Who wants to live forever” significativamente piazzata come sottofondo durante la presa di coscienza  della malattia) e pigiando qualche pulsione homo dentro sequenze rosso-fuoco (e sulle note copulatorie di “Another one bites the dust”, quasi una clip dentro un videoclip).

Compromessi nonostante tutto che permettono però di far avvicinare anche il pubblico generalista, senza la minaccia di dannosi e un po’ ipocriti restricted (come si paventava nella versione cestinata di Sacha-Baron Cohen), non soltanto alla musica di un mito ma anche a quella dolente biografia che gli vibra dietro come un accordo di basso di John Deacon. E se un the miracle è avvenuto nel film è stato sicuramente quello del regista, abile nel non aver ridotto la straordinaria performance di Rami Malek a materiale da Freak Show del sosia. Perché se la ricerca dell’effetto-somiglianza produce senz’altro altalenanti stupori in chi guarda (in tal senso il Brian May di Gwilym Lee è assai più impressionante di Mercury), quello che fa di Malek un credibile Freddie sullo schermo non è attribuibile solo alla studiatissima gestualità concertistica ma anche alla resa di una più sotterranea malinconia, quella che affiora dalle umide rotondità di uno sguardo tanto diverso quanto affine a quello del cantante. No, non era quello il taglio degli occhi del vero Farrokh eppure è più segnante di qualsiasi protesi dentaria “obbligata”. Mimico fin dove esigenze di spettacolo lo richiedono (la performance finale al Live Aid è straordinaria) Malek sa essere intimista lì dove nessuno glielo impone (la scena della telefonata a Mary Austin è lieve e struggente), catturando il cuore e fissando per noi l’immagine di un’anima fragile che, nonostante l’affetto di tutti i fan, forse non è stata amata abbastanza per ciò che era davvero.

Ci sono molti modi per criticare cinematograficamente “Bohemian Rapsody” certo, ma ce n’è soltanto uno per viverlo come esperienza esaltante. Non lo conosce né chi lo apprezza tiepidamente (o lo critica) e neppure chi esce dalla sala con gli occhi lucidi. La motivazione forse è gemella di quell’affetto che ci riconduce, quarantatrè anni dopo, a “Bohemian Rhapsody” la canzone. Ne amiamo ogni singolo passaggio anche se il suo senso ci sfugge ancora. Il film è un biopic rock ma agisce sui nostri sensi con gli stessi strumenti del pop; perché proprio come quello non deve spiegare a nessuno il suo perché. E quindi…Galileo Figarò Magnificò!

 

Andrea Lupo

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