C’è un filo rosso che unisce le ultime opere di Clint Eastwood, tutte ascrivibili ad altrettanti fasi di una splendida e ancora sorprendente maturità. E’ il filo del tempo e dell’evento storico. Una “corda tesa” che attraversa la cronaca americana più recente e che si serve di questa per modellare e rimodulare cinematograficamente la dimensione più sfuggente e abusata di sempre. Quel tempo che avanza inesorabile ma sul quale a quasi 90 anni si ha ancora parecchio da dire. Magari per saldare debiti con la coscienza militare contemporanea del paese (il Chris Kyle di American Sniper, opera sulla quale pesa ancora un gigantesco equivoco ideologico) o far emergere i vizi di forma di un sistema giudiziario che antepone gli interessi assicurativi all’elemento umano (Sully). O ancora per riflettere sull’atto di eroismo e sulla sua stessa casualità (Ore 15:17- Attacco al treno, dove i veri protagonisti dell’atto che porterà a sventare un attentato vengono inquadrati sia nella concitazione di quegli accadimenti che durante l’insignificante che li precede, secondo un meccanismo di rimodellamento del flashback che mette a confronto l’ordinario e lo straordinario). Poi c’è The Mule- Il Corriere, che sul personaggio di cronaca (il più anziano corriere della droga nella storia del narcotraffico) imbastisce una parabola tipicamente eastwoodiana in cui la redenzione psicologica (dieci anni dopo quella politica di Gran Torino) passa proprio attraverso il ripensamento del concetto di tempo, quello che il corriere ha il coraggio di sospendere a proprio rischio per accudire la siepe dei propri affetti. Al centro di queste riflessioni, abilmente celate da una narrazione classica e cristallina, stanno ovviamente i personaggi. Piccoli e grandi, eroi e anti-eroi. Non importa se e quanto conosciuti nel liquido mondo attuale. Eastwood li preleva amorevolmente dalle cronache recenti per offrir loro riscatto dentro la sua biografia cinematografica (e ideologica), e facendo aderire storie già archiviate dalla memoria collettiva a quella meditazione sul tempo che gli è palesemente cara. Perché anche in “Richard Jewell”, eroe americano dentro il quale convivono tipiche contraddizioni del paese (obeso e deriso, ingiustamente dropout ma anche figura docilmente reazionaria e familiarmente irrisolta), i confini fra l’atto disinteressato di eroismo (qui il gesto che evitò di trasformare l’esplosione di un ordigno durante le Olimpiadi di Atlanta in una strage), il suo odioso stravolgimento a uso e consumo del sistema mediatico/investigativo e il ravvedimento operoso che riabiliterà infine condotta e personaggio sono marcati ancora una volta dal tempo. Da quei secondi preziosi che ci si rifiuta di guardare sin da principio e che rendono matematicamente impossibile la macchinazione criminosa attribuita al mite agente della security. Brandelli essenziali di orologi che ticchettano in direzione uguale ma contraria e che separano le colpe lievi dalle autentiche responsabilità, gli amici dai nemici e i buoni dai cattivi.
Attenzione però a non scambiare queste demarcazioni nette con facile manicheismo da reazionario (l’ex Ispettore Callaghan è ancora oggi il cineasta più inutilmente discusso dalla critica per via delle sue convinzioni politiche, e anche uno dei più illuminati). Perché se l’universo rappresentato da Eastwood deve essere, per forza di cose, limpido e rotondo anche a costo di forzature significative sul dato “reale” (la criticatissima rappresentazione della giornalista spregiudicata), ciò non significa che in esso non esistano zone grigie anche in mezzo ai segni di interpunzione più netti della storia. Sono le figure di contorno (termine ingrato) a richiamarle. Quegli splendidi colpi di pennello di script che tinteggiano un nucleo emotivo essenziale e rimarchevole e che tengono questa storia di ordinaria ingiustizia americana sempre sul filo delle tensione e della commozione. Il magnifico e disilluso avvocato di Sam Rockwell dalle braghe corte e la lingua lunga (il poster nell’ufficio recita “I fear government more than I fear terrorists” che richiamato da un repubblicano come Clint suona ancora più sinistro); la superba mater dolorosa di Kathy Bates (meritatissima nomination come non protagonista), che mentre invoca la riabilitazione davanti alle telecamere dei giornalisti fa erompere tutto il suo amore per quel figlio al quale forse non ha saputo dare gli anticorpi necessari per difendersi dal suo stesso paese. Sono le due voci ai lati di Richard Jewell (il bravissimo Paul Walter Hauser, già visto in Tonya e BlacKkKlansman), quelle del sistema difensivo e dell’altro familiare, entrambi fallimentari forse ma sempre ostinatamente in cerca di riscatto. Del sistema investigativo (i federali) non c’è da fidarsi troppo perché pericolosamente arroccato sulle sue inflessibili posizioni iniziali. A quello mediatico invece Eastwood concede un’insolita occasione di assoluzione attraverso la redenzione emotiva della rampante reporter (Olivia Wilde). Per alcuni inverosimile e favolistica ma magari chissà, in tempi di fake news e costruzioni un tanto al chilo, sinceramente auspicata dal regista (e con finalità vagamente “risarcitorie” rispetto alle libertà che la sceneggiatura si prende sul discusso e ormai deceduto personaggio). Una lezione di cuore tanto schietta da sembrare ai più anacronistica (anche in barba al rispetto del “canone” #metoo). Ad ogni modo per raccontarci tutte queste figure che compongono la “ballata di Richard Jewell”, il texano della coscienza americana ha dovuto fermare ancora una volta il tempo, riavvolgendo quel nastro della memoria che scorre davanti agli occhi a velocità doppia rispetto al cuore. La sua nuova indagine sul tempo resta dunque sospesa lì, sopra quella manciata di secondi che valsero a Jewell ancora un po’ di vita e dignità e a noi oggi un’altra bella lezione di cinema (ed etica). Commuoversi insieme a lui per l’attesa assoluzione dentro un’anonima tavola calda non è per nulla fuori luogo. Piuttosto ci fa stare bene.
Andrea Lupo
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