Ultima notte a Soho

Just listen to the music of the traffic in the city, linger on the sidewalk where the neon signs are pretty
How can you lose? The lights are much brighter there. You can forget all your troubles, forget all
your cares So go downtown…

(“Ascolta soltanto la musica del traffico della città, soffermati sul marciapiede dove le insegne al neon sono belle. Come le puoi perdere? Le luci là sono più brillanti. Puoi dimenticare i tuoi guai, dimenticare  tutte le preoccupazioni. Quindi vai in centro…”)

La voce di Petula Clark nella hit “Downtown” lo diceva chiaramente in quei favolosi ’60: il sogno alberga nelle grandi città, il rumore del traffico è musica e le luci (rigorosamente neon) fanno dimenticare le preoccupazioni. E’ la City, bellezza ed è lì soltanto per te. Londra e le sue intermittenze emozionali e luminose. Eros pronto a scoccare il dardo per farti innamorare della sua Piccadilly. E poi c’è Soho naturalmente: musica, musical, sesso e sogno. Puoi seguirne i sentieri fra promessa e ambizione, perderti tra vicoli che raccontano una favola glitter oppure farti divorare dalla Chimera dei favolosi Sixties. Sta proprio là in fondo al vicolo. E aspetta te, una “lei”.

Forse è solo una canzone o un barbagliante dormiveglia. Un coming of age sicuramente ma, soprattutto, è un thriller vestito di chiffon color pesca, annegato nella musica del miglior juke-box anni ’60 e infine centrifugato nell’emoglobina. E’ molte cose “Ultima notte a Soho” di Edgar Wright. Di sicuro è l’ibrido dell’anno (e una delle sue visioni più entusiasmanti). E’ la storia di Sandie ed Eloise, di una sorellanza che attraversa il tempo ma resta ben piantata nello stesso luogo (Londra, magnifica e spietata insieme). Ma è anche la vicenda dello specchio che separa le due ragazze e che le riunisce subito attraverso l’incrinatura dentro. E’ il festival del doppio, dei riflessi e delle reviviscenze di sogni tutti al femminile, quei sogni che solo dei maschi bastardi sanno spezzare con arte, disinvoltura e mancanza totale di rimorso.

La stilista e la cantante, l’oggi e lo ieri, l’aspirazione candida ma ingenua da una parte e la frustrazione consapevole dall’altra. Eloise si veste (e veste le altre) nel nuovo secolo seguendo il mood scintillante degli Swinging Sixties. Sandie invece insegue la fantasticheria musicale dentro quell’annata. La prima sgrana gli occhi attraverso la trasparenza di un cartamodello reinventato. La seconda è il mannequin spezzato; indossa abiti che da ariosi e brillanti si fanno via via opachi come la sua aspirazione, tra il pizzo nero di un assolo che nessuno ascolterà (Downtown) e quello di un burlesque che coreografa beffardamente il destino delle non protagoniste (Puppet on a string). Prima dell’abito rosso sangue che l’attende, prevedibilmente, in fondo al vicolo.

In “Ultima notte a Soho” storia e ritmo seguono perfettamente il flusso dei desideri e dei sentimenti delle protagoniste. Dalle corse a perdifiato fra locali, taxi, piste da ballo e cocktail fino a una progressiva, inesorabile discesa agli inferi bagnata dalle lacrime amare di Sandie e dentro la quale si riverbera la parallela presa di coscienza di Eloise. E questa consapevolezza (moderna) assume le fattezze di una Golconda londinese in cui a fare capolino sulla città non sono irreprensibili uomini con ombrello e bombetta ma laidi predatori senza identità, ectoplasmi che invocano pietà, corpi da annientare e occultare (per contrappasso alla loro voracità mortificante e distruttiva). L’abbattimento del maschile non è più semplicemente metaforico ma è, soprattutto fisico, ed è necessario per poter sopravvivere. Allo stesso modo anche l’abbattimento/sostituzione del modello femminile/materno diventa condizione necessaria per evolvere dentro una mera esistenza. L’ultima notte a Soho allora diventa quella in cui le protagoniste perdono l’innocenza o  riconquistano quella perduta. La notte in cui può nascere una nuova comune identità femminile. Una storia che solo gli specchi conoscono e possono raccontare.

Andrea Lupo

 

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