Talk to Me, la morte secondo la Generazione Z

 

La morte è qualcosa che non dovremmo temere perché, mentre siamo, la morte non lo è, e quando la morte è, non lo siamo.” (Antonio Machado). 

Il cinema, come medium, non teme la morte perché fonda la sua ragion d’esistere su un meccanismo di ripetizione (e di rinascita) che si consuma tanto nei luoghi (oscuri) della proiezione, che sulla superficie corneale dello spettatore. Il cinema è ciclico e ritornante, dunque già zombie. L’horror al cinema, per sua natura, non può temere la morte e l’adopera sempre come fondamentale meccanismo di seduzione visiva, sia quando ne filma il “compiersi” più esplicito ed efferato (come nello slasher), che nella messinscena del suo “dopo”. Proprio la rappresentazione di questo “dopo” è stata declinata dall’horror attraverso svariate chiavi visivo/narrative, da quella dirompente ed eversiva (“L’aldilà”, “Inferno”) fino a quella filosofico-esistenziale (“Storia di un fantasma”), passando attraverso spettacolarizzazioni dai risvolti moralistici (“Linea Mortale”) e riletture gotico-psicoanalitiche (“The Others”). Il “dopo-morte”, nell’ultimo decennio horror, è diventato perfino un luogo fisico ed “occupabile” come l’Altrove di “Insidious”, raffigurazione barocca di un limbo dove i vivi e i morti stanno imbrigliati fra loro senza soluzione di continuità. L’aldilà, nell’accezione visiva più commerciale e diffusa (alla James Wan per intenderci), non è più quel lontano non-luogo geografico fulciano (citato anche in “The Void”) in cui si avanza metaforicamente ciechi, ma un corridoio che si percorre quasi coscientemente, un ambiente la cui red door d’accesso può condurre le anime (sospese o ancora no) alla propria stazione definitiva oppure dritti fin dentro la fucina del demone. Siamo lontani dagli anni ’70 di Capitan Gaio e di quella planchette che scivolava di sottecchi sotto il palmo della bambina Regan in uno dei momenti più terrorizzanti de L’esorcista (fugacissimo presagio di un diavolo che stava già al capezzale del suo letto).  Il cinema horror, dopo cinquant’anni, si è letteralmente impossessato di quella suggestione scaturita dal capolavoro di Friedkin e l’ha dilatata nel tempo fino a farne materia viva per la serializzazione di un suo preciso e codificato sottogenere. Capita così che le avventate incursioni in quel “dopo” ad opera di adolescenti curiosi e la fascinazione per la Ouija (da tavola medianica inventata a fine ‘800 a gioco da tavolo presente in tutte le case americane fino a prodotto disinvoltamente commercializzato on line), siano stati letteralmente normati (e contestualmente “normalizzati”) dal cinema horror. E capita altresì che quegli adolescenti, da incauti e un po’ balordi “evocatori” di anime al lume di candela siano diventati, nell’era dei social, challengers annoiati e sconsiderati, fieri rappresentanti di quella generazione Z che non teme più nulla, neanche gli spiriti, e costantemente in cerca di un’esperienza da filmare (perché solo nell’atto del filmare rinviene un’esperienza).

Succede in Talk To me, horror derivativo per le tematiche ma originale nell’approccio. Una pellicola cha tratta le questioni (care al genere) del conjuring, delle sedute e dell’aldilà con piglio più outback, che poi è quello che esattamente ci si aspetterebbe da due fratelli cineasti australiani (i Philippou) cooptati dalla specialista in prodotti indie A24 (Hereditary, Midsommar, Pearl).E subito indie diventa l’oggetto-cardine della seduta, lo strumento conduttore utilizzato per stabilire il contatto con l’altro mondo, non più la classica planchette a forma di cuore ma una mano mummificata e ceramizzata. Cambia anche il modus dell’esperienza occulta: non più quel lento scivolamento in una dimensione invisibile, che richiedeva attesa, concentrazione e rispetto da parte degli evocatori, ma una connessione diretta e fulminea con lo spirito di turno, stabilita con la semplice stretta dell’arto-feticcio. La Ouija in Talk to Me non è più la tavoletta medianica ma il corpo stesso dell’”evocatore”, sorta di amplificatore simultaneo di voci provenienti dall’oltretomba che non hanno più bisogno di compitare lentamente la loro verità attraverso l’alfabeto, ma la urlano attraverso la voce rauca dell’adolescente (fantoccio) di turno. Non si tratta, dopotutto, di anime alle quali i protagonisti chiedono chissà quali segni, ma presenze evocate casualmente nel corso di una ubriaca, survoltata roulette russa, durante la quale non ci si preoccupa minimamente del “chi” o del “perché” ma solo di mantenere la fotocamera rigorosamente accesa. Più che una seduta spiritica l’ennesima sfida virale della Generazione X tesa a creare contenuti o a smascherare il “fake” dietro un video (producendone ulteriori).

  

A colpire subito, nella messa in scena di questa insolita challenge paranormale, non è tanto il fatto che lo stato di trance al quale i protagonisti si abbandonano (divenendo essi stessi, durante la “possessione” che segue, nuovi reel da condividere) sia palesemente una variazione sul tema di un trip da stupefacenti, quanto l’assenza totale (in loro) di un qualsiasi filtro su ciò che viene vissuto, sulle visioni cui si è assistito e sulle possibili implicazioni di quello sconfinamento fra dimensioni. Nessuno di loro (neppure la protagonista, black e motivata) appare veramente scosso dalle figure che gli si palesano inspiegabilmente davanti, quanto, al più, divertito. Nessun autentico turbamento sembra coglierli per quell’irruzione violenta nella realtà di presenze dotate di fattezze orribili e grottesche. L’esperienza medianica, in questo nuovo approccio horror, non è più che uno “sballo” goliardico durante il quale è più logico preoccuparsi della possibile compromissione della propria immagine “social” che della momentanea perdita di controllo sul proprio corpo (perché uno spirito non è dissimile da una droga che disconnette dalla realtà). Tutti insomma “spaventosamente” indifferenti di fronte all’esperienza paranormale, almeno fino a quando una di queste non inizierà ad avere ripercussioni violente su alcuni di loro (e quindi a mettere a rischio la continuità del giochino). E’ in questo preludio di giovanile e stolta incoscienza che “Talk to me”, ancora prima del prevedibile crescendo horror che seguirà, sparge probabilmente i semi più perturbanti del suo discorso. Perché quei novanta secondi di buio cui i protagonisti si sottopongono per sfida (quasi un riferimento al tempo-limite dell’esperienza post-mortem dei Flatliners di Schumacher) sembrano perimetrare idealmente la zona grigia in cui staziona oggi questa generazione, il “limbo” terreno dentro il quale (irresponsabilmente) vive, incapace di codificare ogni tipo di esperienza (perfino un’apparizione spettrale) o di rintracciarvi una qualche “significatività” capace di lasciare il segno. Non è un caso che la protagonista venga rappresentata da subito come adolescente psicologicamente in stallo; alle prese con un tragico rimosso materno (che in realtà è sempre stato davanti a lei), incapace di instaurare un dialogo significativo con il padre e perfino di un approccio emotivo o sessuale col ragazzo emotivamente desiderato. Non è un caso che il destino, prima ancora di farle incontrare la famigerata mano, la metta simbolicamente di fronte al dilemma di porre fine alle sofferenze di un animale agonizzante in autostrada. “Passerà un’altra macchina” risponde a se stessa e all’amico. Un’altra macchina appunto. La decisione ancora una volta è rimandata. E da quel limbo esistenziale non si esce. Quello che i fratelli Philippou, attraverso la protagonista di Talk to me, offrono della generazione attuale è un ritratto sconfortante e disilluso, perché centrato su un certo smarrimento interiore che nemmeno l’illusione alcolica (o l’ebrezza del paranormale) riesce a nascondere. E’ una generazione che ha abbandonato i propri riferimenti cardinali ed ogni metus reverentialis di fronte all’ignoto e ai morti (eccetto, forse, quelli conosciuti). Ubriacata dalla cultura dell’effimero, desensibilizzata dinanzi all’esperienza e risucchiata, senza saperlo, dentro una grande voragine esistenziale. “Talk to me” angoscia probabilmente più per quanto suggerisce che per la sua efficace e cristallina struttura horror. E quell’angoscia non può che diventare tristezza dinanzi all’immagine finale della protagonista prigioniera del proprio (nuovo) limbo, di un’ aldilà in cui si è (definitivamente) consapevoli del proprio fallimento. La morte “non è da temere perché quando la morte lo è, noi non lo siamo più”. Ma che succede se noi lo siamo ancora quando la morte è già?

Andrea Lupo

 

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