La stanza accanto, il luogo laico e cinematografico di Pedro

“La morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto…”

La citazione è nota a tutti e, al di là dell’incerta paternità (alcuni la attribuiscono al religioso anglicano Henry Scott Holland, altri al nostro Sant’Agostino), magari non è passata inosservata all’attenzione del cineasta spagnolo durante la genesi di “The room next door”, primo lungometraggio inglese dentro una filmografia tenacemente iberica. Ma Almodovar, dichiaratamente ateo, non può ritrovare in quell’immagine vibrante e fortemente spirituale della “stanza accanto” lo stesso significato rincuorante che vi ravvisa con naturalezza il credente, confortato direttamente dalle parole del defunto che si rivolge a lui ( “perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista?…sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo…”). Quelle della poesia sono infatti espressioni vivide di una carezza invisibile, l’invito ad abbandonarsi a una trascendenza (affettiva) che passa solo dal cuore e non (più) attraverso gli occhi.  Per Almodovar la “stanza accanto” invece è tutt’altro. E’ uno spazio laico, inevitabilmente fisico e, ovviamente, morale e politico. E’ il luogo in cui due amiche ritrovatesi per caso (se esiste veramente un caso), ridisegnano se stesse alla luce di un mistero -la morte- che le riguarda e al quale non possono sottrarsi. Una (la Moore, scrittrice) ne ha sempre parlato senza però averla mai affrontata o intimamente compresa. L’altra (fotografa di guerra) ne è quasi del tutto avvolta dopo una carriera trascorsa a documentarla con distacco. Il sentimento che le travolge dinanzi all’Evento è dissonante, quasi divergente, eppure è anche il medesimo, laico e non pacificato, dichiarato dal regista: “Non sopporto che qualcosa di vivo debba morire”. La Moore non sopporta l’idea di praticare un’eutanasia. La Swinton non tollera una decadenza fisica che la privi del più naturale dei diritti civili: quello di scegliere il “quando”. La stanza accanto, dunque, diviene l’unico compromesso capace di rendere “sostenibile” ciò che inevitabilmente appare inaccettabile.  La stanza come segno (e segnale) concreto del patto ma anche quale spazio fisico “neutrale” che annulla ogni residuo di memoria e ridefinisce geometricamente (anche nelle forme e nelle nuances tipicamente almodovariane) il solo presente possibile, restituendo una dignità (in senso etico e politico) a chi se ne va e una diversa consapevolezza (morale e psicologica) a chi rimane. Una tappa e una ripartenza dunque, che si incontrano simbolicamente dentro un ventre ambientale “naturale” (fuori dall’ invadenza ottusa delle istituzioni), e che si saldano simbioticamente attraverso un breve intervallo temporale fatto di delicata e autenticamente compassionevole “sorellanza”. Ma la stanza accanto è anche un luogo cinematografico e Almodovar lo sa benissimo. Per questo il suo lucido manifesto su morte e autodeterminazione, non può (ri)chiudersi semplicemente in se stesso ma deve necessariamente aprirsi ad “altro”. Ed è proprio in quel vivido “doppio” dal sapore hitchcockiano sapientemente evocato nel finale che sta racchiuso l’elegante e personalissimo invito a “credere” del regista, il segno della sua unica fede possibile. L’invito ad abbandonarsi a una trascendenza che, al cinema, passa essenzialmente dagli occhi prima di approdare al cuore.

 

Andrea Lupo

 

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