Halloween, la notte in cui lui ritornò…

HALLOWEEN

di David Gordon Green

C’è un’intuizione folgorante nell’incipit di questo atteso (e in egual misura temuto) “Halloween 2018”. Non si tratta tanto del ritorno a quel manicomio in cui il killer (l’ombra, la strega, l’icona…) Michael Myers ha passato gli ultimi 40 anni dopo la famigerata night he came home, tra baby-sitter immolate sui letti e fantasmi appesi al muro come fantocci. E non si tratta neppure dell’idea di far ripartire la vicenda dai due giornalisti d’inchiesta impegnati col solito real-tv sulle ragioni del male. L’intuizione semmai è più meta-cinematografica ed è quella di provocare – in scena e per lo spettatore – la newborn (o la re-born) del killer attraverso quell’invocazione urlata e insistente proveniente “dalla” sua maschera. In questa breve sequenza pre-titoli Michael occupa immobile e quiescente il perimetro di un cortile mentre intorno lo circondano camici bianchi che paiono usciti da una costola di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Il più zelante (o più stupido, fate voi) della coppia dei due indagatori, dopo averlo raggiunto a distanza-limite, sfila dalla borsa l’antica maschera degli omicidi e inizia ad agitarla dietro le spalle del baby sitter murderer invitando lo stesso a “sentirla” più che a cercarla con gli occhi. Questo mentre tutto intorno la crew dei malati si fa sempre più eccitata e agitata fra ululati, incitazioni selvagge e clangore di catene di sicurezza. The evil ha giusto un fremito, insufficiente (per fortuna) a farlo girare del tutto verso di noi ma bastante per farci intuire un volto ormai incanutito. Ma il Male, quello apatico e assoluto, può davvero invecchiare? L’ultima e più potente invocazione di Michael si impone insieme allo stacco violento del titolo sul buio. “Halloween”. Di nuovo. Stessi caratteri color autunno del 1978, remaster elettronico di quelle note che hanno fatto l’orrore e, infine, la nota pumpkinhead che si ricompone sotto il nostro sguardo partendo dai suoi stessi residui marcescenti (i sequel?). La nuova vicenda ricomincia da qui, cioè più o meno da dove il Maestro John Carpenter la interruppe ufficialmente, e pigia il tasto di un reset irriverente che spazza via 40 anni di epigoni (compreso l’ottimo Rick Rosenthal di “Halloween II” e lo Steve Miner di “H20”) e di re-immaginazioni (i due gioielli indie di Rob Zombie), glissando, ma senza troppo ferire, sull’incongruenza narrativa di partenza (Quando è stato catturato Michael? L’ultima sua apparizione non era stata una sagoma sull’erba?). Tanto basta al cinefilo innamorato (e al fan devoto del franchise) per ricominciare la sua relazione pericolosa con il male dopo la brutta chiosa di “Halloween resurrection” del 2002, ottavo capitolo partorito sulle suggestioni nascenti dei mockumentary e dentro il solco morente del Kevin Williamson-touch. “Halloween 2018” riparte dalla brutalità di quell’urlo iniziale, da una conjuring sostanziale -e, s’intende, commerciale- voluta da Jason Blum, ri-evocazione necessitata però dall’esigenza di restituire l’originale spessore mefitico a un’icona indegnamente fiaccata dal tempo. Un’operazione-dignità che non poteva non coinvolgere, insieme a Myers, la final girl per eccellenza (diventata poi final lady e oggi splendida final granny) Jamie Lee- Curtis, controparte necessaria del Male che non vuole morire. Non più baby-sitter indifesa nè sorella occultata dell’assassino (del resto la migliore riflessione sulla genealogia del male resterà sempre quella di Rob Zombie) ma piuttosto una sopravvissuta nevrotica, paranoica e dal bicchiere facile, suo malgrado incarnazione (oggi diremmo “vagamente trumpiana”) del diritto domestico e americano all’autodifesa. Due volti i loro diversamente segnati dal tempo, con i solchi impressi a fuoco nei rispettivi DNA cinematografici ancor prima che fra le rughe delle proprie maschere. Michael e Laurie, il male irrazionale e il bene che intende sopravvivergli. Entità interdipendenti e ontologicamente conflittuali, reviviscenti per necessità (propria) e per il piacere di immaginari insaziabili (altrui). E se l’indagine psicologica sulla Strodie, tra alcool, conflitti familiari irrisolti e ansia “marziale”, è forse quella con più rischi e vuoti di scrittura (sebbene alla Curtis basti solo una smorfia o uno sguardo per stregare  ancora l’intera platea), il trattamento compiuto su Michael Myers è invece uno degli aspetti più interessanti di questo sequel-reboot del regista David Gordon Green. In parte entità brutale alla Rob Zombie (vedi gli omicidi alla stazione di servizio), in parte killer domestico (l’omaggio al baby-sitting sanguinario con corredo di stupidario giovanilistico e infantile) e infine silhouette corporea e indomabile che cade solo per potersi risollevare nuovamente con robotica e “ritornante” puntualità. Che poi è proprio quello che attendevamo. E se, probabilmente, manca allo sguardo del regista la capacità di saper aprire quegli squarci visivi che fanno esondare la storia dal genere o il genere stesso da binari confortevoli (laddove Carpenter seminava bombe di incertezza e inquietudine dietro ogni siepe di Haddonfield), resta intatta, fortunatamente, quella granitica consapevolezza di essere ancora noi (pubblico), oggi come allora,  correi inconsapevoli e non dichiarati del killer delle baby sitter (e di tutti quelli che gli capitano a tiro). Così se quarant’anni fa Carpenter calava sulla nostra testa la maschera di un pagliaccio infantile per farci partecipare soggettivamente al buio di una mente durante il più tremendo degli omicidi familiari, oggi, non meno virtuosisticamente ma con efficacia inevitabilmente impoverita, ci fa pedinare il male da dietro, portandoci a seguirlo prima attraverso i vialetti e poi obbligandoci a seguirne le gesta, titillando “sensualmente” la nostra stessa memoria cinematografica. Perché che cos’è in fondo l’omicidio della casalinga (innestato nell’unico piano sequenza del film) se non un espediente segnatamente cinefilo per ricongiungere Michael, col nostro benestare s’intende, al proprio peculiare strumento di morte? Così dopo la maschera, di cui the shape si riappropria dopo aver fatto fuori i due giornalisti -documentaristi (metaforica pietra tombale sopra ogni tentazione da “Halloween resurrection”), ecco il classico coltellaccio da cucina, recuperato all’interno di una sequenza domestica che ricalca spudoratamente le stesse inquadrature de “Il signore della morte”. A quarant’anni di distanza dal suo esordio la prima maschera slasher della storia ritorna ad essere non solo lo spaventoso simulacro horror delle origini ma anche un ideale contenitore di pulsioni, ossessioni e letture. Da Male irrazionale e privo di connotazioni fisiche (Michael per noi non può avere fattezze riconoscibili) a propulsore ideale di dinamiche oppositive (vittima-aggressore, tenebre-luce) e manicheistiche (bene-male, secondo una parabola destinata però ad incrinarsi a causa del “nuovo dottor Loomis”), fino a involucro che racchiude la stessa mise-en-scène del genere sia come struttura che come parodia (la scena della porta e della baby-sitter a un passo dallo sberleffo alla “Scary Movie”), senza dimenticare la rilettura da se stesso (si vedano, oltre alle citazioni, anche le sequenze con Laurie che replicano, invertendone il senso, frammenti del primo Carpenter). Inutile pretendere invece dagli adolescenti che popolano questo reboot la medesima intensità “sessuale” che animava quelli del 1978. A motivare le amiche baby-sitter della Curtis stava sottaciuto quel furore libertario figlio di un’ epoca e di un clima (sociale, politico) che aveva conosciuto l’orrore delle guerre e che premeva per “liberarsi” di quei fantasmi . A guidare invece gli incolori adolescenti attuali ci sono i riconoscimenti scolastici, le feste in maschera e zucche vuote esplose coi petardi, mentre a far saltare gli equilibri (e il sesso promesso) basta un bacio a tradimento. Troppo poco per smuovere l’impulso sanguinario di Michael Myers (ammesso che anche allora, come sostenuto dai critici e da Wes Craven, uccidesse per sessuofobico contrappasso).  Aggiornamenti socio-adolescenziali a parte cosa manca davvero in questo imperfetto eppur gustoso H40? La risposta è semplice. Non c’è “ombra” della strega. Non v’è traccia cioè di quel soprannaturale che sapeva insinuarsi prepotentemente fra le pieghe della zucca, scardinando certezze adulte e spalancando le botole di suggestioni infantili. Manca il crepuscolo che rendeva la notte di vigilia quella “in cui lui tornò a casa”, proiezione silente e occulta di quel ponte calato fra l’ordinario di un killer e l’inspiegabile della strega. Manca la notte in cui l’ombra allattò il mostro al proprio seno per farne mito eterno e cibo per l’angoscia . Manca “Halloween” insomma (e forse era prevedibile). Ma Michael Myers c’è. Come inizio può bastare…

ANDREA LUPO

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