Pieces of a Woman
di Kornél Mundruczó. Con Vanessa Kirby, Ellen Burstyn, Shia LaBeouf, Molly Parker.
Pieces of a woman. Pezzi di donna. Tasselli di reale femminile che cercano posto dentro il ritratto di un “Io” frantumato. Destrutturazione psicologica di una madre e sua successiva, lenta ricomposizione attraverso il più grave dei percorsi: quello del lutto per la bimba appena nata. Una maternità non negata ma “sottratta”. Dall’accidente forse o dall’imperizia altrui, o magari, più semplicemente, dalle conseguenze di un’incauta, cocciuta auto-determinazione. Frammenti psicanalitici di un processo interiore che sconfina in altri fori, quello familiare innanzitutto ma anche l’altro mediatico e penale. Ricostruzione, ricongiungimento e riunificazione quali fasi che mediano un atto creativo importante quasi quanto la maternità: la rinascita di “sé”. E’ (non a caso) costruita intorno a un’immagine scopertamente metaforica, quella di un ponte in lenta costruzione, la drammatica parabola al femminile di “Pieces of a woman”, con le sequenze del lento avanzamento dei lavori che finiscono per divenire controcanto visivo e “stagionale” dello stato d’animo della protagonista. L’impalcatura in evoluzione insegue questi “frammenti di donna” dall’autunno fino all’estate, attraversa con loro l’incomprensione gelida ed immobile dell’inverno e li accompagna verso il germinare di una nuova, primaverile consapevolezza. Forse una nuova gestazione o magari un kaddish di 11 mesi. Vanessa Kirby (meritatissima nomination all’Oscar) è la mater dolorosa al centro di questa drammatica storia di risonanze irrisolte fra lei e il resto del mondo (esattamente come quelle che, spiega l’operaio La Beuf, fanno crollare inaspettatamente ponti solidissimi e provocano l’inspiegabile dondolio di altalene senza bambini). E quell’ accostamento metaforico fra le (sovra)strutture psicologiche dell’anima e le altre dell’ingegneria esterna sta lì a dimostrare la grande capacità evocativa del linguaggio cinematografico, quella peculiarità tipica della settima arte di saper restituire attraverso un’immagine a suo modo “letteraria” la sostanza di un tormento interiore riuscendo al tempo stesso a rarefare i contorni più aguzzi e irrappresentabili di un dramma scopertamente realista.
Sono piccole, grandi scene-madri a segnare l’avanzare di tali passaggi stagionali intimamente ed esistenzialmente connessi ai protagonisti. E così, oltre a quel superbo ed elaboratissimo piano-sequenza del parto da cui muove la storia, va citato anche il nervoso approccio sessuale del marito nei confronti della moglie e l’anti-erotico cedimento di questa (La Beuf e la Kirby entrambi maiuscoli nel restituire con pochi tocchi e disarmante esattezza lo schianto sordo e silenzioso di un’intimità compromessa giacchè eretta su gracili fondamenta). Ma quei pieces del titolo sono tanto gli scorci di una personalità femminile che sembra provenire dritta dagli anni ’70 (il paragone col cinema di Cassavetes è tutto fuorchè improprio), quanto pièces di matrice teatrale, palchi per monologhi di donne, sia di quelle sedute silenziosamente in aula ad attendere i verdetti di condanna o il pianto di feti che cercano ancora un destino. Tra essi non poteva non spiccare lo splendido monologo della matriarca Ellen Burstyn (ogni sua apparizione, per chi scrive, andrebbe incorniciata o premiata), “pezzo” di bravura totale in cui le ragioni del cuore -di chi è madre- e quelle della memoria -di chi è stata figlia- si annodano fra loro fino a costituire una miccia spessa e con la punta ancora ardente di dolore generazionale (la sopravvivenza all’Olocausto). Perché il dolore materno in “Pieces of a woman” non è (soltanto) una questione individuale o di coppia ma diviene grembo che ingloba riflessioni comunitarie (il bisogno “istituzionale” e collettivo di un colpevole anche nelle faccende private) mentre si trascina dietro incrostazioni familiari mai dissolte. E quel lutto alla fine si trasforma in viatico che fa germogliare una inaspettata e più tenera sorellanza materna, per la quale forse non è ancora troppo tardi. La simbolica rottura delle acque della protagonista non ha fatto che denudare antiche fragilità e rivelato il bisogno (familiare e collettivo) di compiere quel percorso. Per questo occorreva un ponte. Per non restare inghiottiti da quelle acque.
Andrea Lupo
Commenti recenti