Con “Halloween Ends” il regista David Gordon Green conclude la sua discussa e coraggiosa trilogia dedicata alla maschera omicida partorita dall’immaginazione di John Carpenter con il seminale “Halloween-la notte delle streghe”. Un’operazione nata come reboot di una saga che, a essere onesti, tra gli anni ’80 e i ’90 non aveva riservato all’icona Michael Myers un trattamento degno o all’altezza del cult del 1978. Perché ad eccezione di un discreto sequel che prolungava la fatidica notte delle streghe fin dentro l’ospedale in cui era ricoverata una malmessa Laurie Straude (la mitica Jamie Lee Curtis) e di un gustoso capitolo (“Halloween 20 anni dopo”) concepito dentro la filosofia dello slasher post-Scream rilanciata dalla Miramax, gli episodi successivi brillavano solo a tratti e oggi si ricordano più per le buone intenzioni poco sfruttate (l’eredità assassina di Myers nel corpo di una bambina dei capitoli 4 e 5) che per genuino impatto orrorifico. Fuori dal discorso restano ovviamente sia il capitolo 3 (da ricordare rigorosamente col titolo originale e cioè “Season of the witch“), scheggia impazzita della saga e piccolo gioiello che non utilizza la maschera ma, più intelligentemente, rilegge il ruolo della stessa in chiave horror-merceologica, sia il brutale e visionario dittico firmato Rob Zombie, che tuttavia occupa una dimensione (multiverso si direbbe oggi) quasi del tutto autonoma. David Gordon-Green ha assunto invece sulle proprie spalle l’oneroso compito di proseguire la saga con i personaggi originali, partendo proprio da quella storica notte del 1978 a Haddonfield, la notte in cui lui tornò a casa. La sua trilogia, iniziata con “Halloween 2018”, è la sola resurrection possibile perché intercetta tanto le esigenze produttive del reebot (resuscitare un’icona ancora “ghiotta” per i detentori dei diritti), quanto quelle narrative di un sequel coerente con la storia e lo spirito originale. A ciò si aggiunge anche la necessità di consegnare al fanbase un capitolo capace di restituire alla maschera di Myers l’originaria statura mitica fin troppo erosa da goffi episodi (alcuni arrivati perfino a manipolare gli inconfondibili tratti somatici del killer), senza rinunciare al tempo stesso a una riflessione più personale (personalistica per alcuni) e attuale su quella stessa figura. Il risultato è finalmente leggibile come un’opera stratificata e unica, che lungo i suoi tre atti porta a termine l’arco narrativo fondamentale (la sfida fra i due personaggi principali, ormai incarnazioni concettuali al confine dell’archetipo) e al tempo stesso problematizza l’intero contesto in cui il killer è calato, arrivando (quasi) a demistificare l’ombra della strega. Una scelta indigesta per tutti coloro che erano rimasti affezionati all’originaria rappresentazione di un Male irrazionale, metafisico e ritornante, e che ha fatto gridare al tradimento e al reato di lesa maestà anche qualche critico. Al netto di isterismi piuttosto “infantili” (c’è chi sul web ha già chiesto con petizione di disconoscere “Halloween Ends” quale capitolo ufficiale del franchise chiedendo di rigirarlo e valutandolo perfino al di sotto dell’indifendibile “Resurrezione”), va ricordato ai tanti delusi che per loro la storia può tranquillamente concludersi su quel prato erboso del 1978, lo stesso in cui Michael Myers, appena crivellato di colpi dal Dr.Loomis (Donald Pleasence), risorgeva per la prima volta proiettando l’ombra della strega su ogni futuro Halloween. Per chi invece è disposto ad accogliere la nuova linea narrativa impostata dal film del 2018 può proseguire tranquillamente con la visione dei tre capitoli, perchè magari potrebbe ritrovarsi felicemente sorpreso. Dopotutto a David Gordon-Green interessa sicuramente Halloween, ma, per fortuna, non soltanto Michael Myers.
In fondo era abbastanza chiaro già da “Halloween 2018” che il Michael Myers ritrovato in manicomio non fosse più (tanto) quel boogeyman “fuso” nella notte del 1978, ombra della strega o il killer delle baby sitter imparentato con la protagonista (il regista Gordon Green nega chiaramente questo rapporto dato che gli eventi della nuova trilogia non tengono conto del capitolo due, quello in cui viene fatta tale “rivelazione”). Pur privato di questi titoli tuttavia c’è una cosa che Michael nel tempo non ha mai cessato di essere: un’icona di Male puro, indifferente e feroce. Inumano e soprattutto “risorgente” a dispetto di qualsiasi fendente e colpo di revolver. Il killer del 1978, quando viene raggiunto in manicomio dai due giornalisti nel prologo del primo sequel di Gordon Green, è ancora quella sagoma imperturbabile di cui non è possibile scorgere il viso (il Male giustamente non può avere volto), ma è anche l’essere sigillato nel medesimo mutismo infantile all’indomani del primo omicidio (quello della sorella). Quando, in camicia di forza e catene ben salde al pavimento, il nostro viene richiamato brutalmente dal giornalista a volgere lo sguardo verso la sua maschera, assistiamo al rituale di un reborn dal sapore meta-cinematografico: quell’urlo infatti è anche l’intimazione del regista al killer, l’atto con cui lo invoca a tornare in scena, a sostituire il colore della canizie di un insano di mente qualunque con il lattice consunto del killer. Titoli di testa (quasi) come quarant’anni fa: la zucca intagliata però questa volta si ricompatta dal suo stesso marcio e sulle note indimenticabili di Carpenter risorge davanti a noi come una fenice. La mitopoiesi horror si realizza metaforicamente davanti ai nostri occhi con la sostituzione simbolica della maschera al corpo fisico. Michael Myers, ci viene ricordato, è scheletro e muscoli soggetti a deterioramento, ma è anche il contenitore “occupato” da un Male informe (the shape) e quest’ultimo, come ci insegna il genere, può esistere (e resistere) finchè resta in piedi la carcassa di cui si ciba. Per questo può tornare ancora una volta a camminare ad Haddonfield. Per questo può tornare a uccidere.
E Myers continua a uccidere in “Halloween 2018”. Lo fa inseguendo ancora la sua nemesi, Laurie Strode, la donna che non muore e si rifiuta di morire, final girl per eccellenza (per chi adora e adopera i codici dello slasher). Tutti gli omicidi intorno a lei, anche quelli dei familiari più stretti, non sono che incidentali, come le tappe occasionali di un itinerario che the shape continua a percorrere imperturbabile dal 1978. David Gordon Green però non è insensibile ai mutamenti cinematografici e socio-culturali intervenuti da allora e non si accontenta di riproporre in modo acritico l’ormai prevedibile dinamica killer vs. vittima. Così inizia ad incistare progressivamente nei tre film intuizioni sempre più moderne e coraggiose. A cominciare dalla Laurie del 2018, donna (e nonna) ancora traumatizzata dagli eventi di quarant’anni prima, qui serrata dentro una casa-bunker apparentemente inespugnabile, fra solide panic room e arsenali degni di un marine in pensione. L’America del 2018 del resto era già nelle mani di Trump da oltre un anno e non a caso l’ideologia reazionaria era tornata a pervadere ogni ambito, soprattutto quello “domestico” la cui inviolabilità, per ogni americano, va difesa ad ogni costo (come da II Emendamento). Laurie ad Haddonfield è considerata la paranoica un po’ folle, la visionaria a cui credere poco, il soggetto ideale insomma dentro il quale la cittadina tutta può riversare ogni responsabilità e autoassolversi per aver perso la memoria storica dei delitti di quarant’anni prima (non a caso “Halloween kills” partirà proprio da questa sorta di amnesia collettiva per innervare dentro lo slasher il suo discorso sulla rilettura critica del passato e le terribili ricadute delle azioni precedenti su quelle presenti). Ma non dei soli umori dell’era Trump è impregnato questo Halloween del nuovo corso. Sotto il puro genere infatti si insinuano anche sottili vibrazioni femministe provenienti dalla recente attualità; così quella richiesta d’aiuto di donna, inascoltata o sottostimata dalle autorità maschili (poliziotti, medici, mariti, tutti destinati a una brutta fine) non può che rimandare alle denunce dell’era #metoo. Il confronto finale del primo Halloween del resto sarà una proverbiale questione fra donne (tre) e un solo uomo.
“Halloween kills” e “Halloween ends” arrivano tre anni dopo questo capitolo, rispettivamente durante e all’indomani dell’emergenza sanitaria che ha sconvolto il mondo e riscritto parecchie delle coordinate sociali, politiche ed etiche fin qui conosciute. “Halloween kills” in particolare è il film spartiacque di tutta la trilogia, quello che si permette di destabilizzare le architetture più ovvie dello slasher per cercare (e trovare) un’identità nuova e diversa. Un film politico fin nella concezione insomma, che non ha paura di intervenire quasi chirurgicamente dentro le zone d’ombra del capolavoro di Carpenter, illuminando il fuori campo cinematografico al là di quel balcone da cui precipitò per la prima volta the shape. Un’operazione ardita e intelligente che consente al regista di spostare i riflettori non più sul solo Michael ma sull’intera Haddonfield, sulle responsabiltà del passato (il bel prologo con i poliziotti) e sui suoi attuali e più malsani umori. Halloween “uccide” quindi e ad Halloween si muore anche in questo violento capitolo due. Ma per quanto la mattanza si collochi qui in continuità con la stessa notte del 2018 (regalandoci dei bei momenti citazionisti, come i tre cadaveri adagiati sulla giostrina con indosso le maschere di “Halloween III”, il bellissimo capitolo “spurio” di tutta la saga), è forse lo spirito giustizialista della cittadina il protagonista reale della storia. Perchè Haddonfield, in preda a paura e paranoia per la rinnovata (e colpevolmente dimenticata) minaccia del killer, si abbandona stavolta ad atavici istinti forcaioli degni dell’America più reazionaria e così inizia una sua personale caccia all’ombra (non più della strega), che intravede praticamwente ovunque e in chiunque, ignorando ogni buon senso e i richiami dell’autorità. E mentre Laurie, in ospedale (come in “Halloween II”) vive una convalescenza ignara e quasi romantica con il vice sceriffo Hawkins, fuori infuriano caos e follia con una plebe inferocita che arriva ad invadere le corsie dell’edificio in cerca del “suo” Michael Myers (intravisto in un povero Cristo malato di mente di cui arriva a provocare la morte). Basterebbe la sola sequenza dell’ospedale preso d’assalto con l’autorità che viene metaforicamente “calpestata” (lo sceriffo impotente seduto sulle scale), per conferire a questo “kills” la patente di film politico. L’America tentata dall’oscurantismo e dalla giustizia sommaria si rispecchia, in questo secondo capitolo di David Gordon Green, nel miope microcosmo di Haddonfield. Il racconto quindi finisce per evocare sia certe dinamiche di provincia care a Stephen King che, soprattutto, le cicatrici non rimarginate delle ultime rivolte a Capitol Hill. E se Michael Myers all’inizio del film risorge dal fuoco, allora le fiamme non possono che diventare la sua chiave di lettura politica più ovvia (e le zucche, nei titoli di testa le zucche, non possono far altro che bruciare). Caos e disordine sovvertono l’ordine costituito nella cittadina esattamente come la follia omicida di Michael che, “contagiata” dal medesimo morbo, si fa sempre più cieca, non risparmiando alcuna categoria (ragazzini, anziani, omosessuali vengono trucidati in nome del caos e del politically incorrect). “Halloween kills” racconta delle braci che ardono sotto il tessuto democratico di un paese che non ha mai chiuso i conti col proprio passato. Non a caso è anche il capitolo più cupo e violento dei tre.
“Halloween ends” riparte da quell’incendio solo apparentemente domato e da una Haddonfield che, appena un anno dopo gli eventi dei primi due capitoli, rigurgita le proprie rinnovate paure dentro il ricordo di un boogeyman sparito nel nulla. Michael Myers nel 2022 è un corpo mai ritrovato, ma è anche la forma del Male dentro le storie che terrorizzano i bambini alla vigilia di Ognissanti, proprio come l’informe ombra della strega intravista dalle finestre nella notte del ’78. Il mostro però non è più soltanto là fuori ma alberga oggi dentro l’individuo (e “kills” era il racconto che testimoniava quel “passaggio”), e può assumere l’apparenza insospettabile di un bambino che si fa bullo del proprio babysitter. In tv le immagini allusive de “La cosa” di Carpenter sottintendono già che il Male non è più quella minaccia esterna proveniente da un altro mondo (“La cosa” di Howard Hawks le cui immagini scorrevano in tv nell’opera seminale del 1978), ma si è fatto presenza “tentacolare” e virale. E in questa forma può generare nuova morte e propagarsi in modi più inaspettati. L’incipit di “Halloween Ends” è, per chi scrive, probabilmente la sequenza più bella e terribile di tutta la saga. Un gioiello di rigore e sintesi che colpisce allo stomaco per il carico di drammaticità e il senso di ingiustizia che veicola. Quasi un piccolo horror dentro un horror più grande che ci prepara a un ennesimo (e ancora più rischioso come dimostrato dalla reazione dei fan) sovvertimento delle regole da parte del regista. Siamo dentro la saga e contemporaneamente fuori da essa, esattamente come accadeva nell’incompreso “Halloween III” che David Gordon Green (dopo l’omaggio delle maschere in “kills”) cita qui attraverso i font iniziali del titolo (gli stessi del film del 1982), quasi a voler sancire una filiazione ideale con quel titolo e la medesima anti-convenzionalità delle scelte. La struttura di “Ends” somiglia a quella delle scatole cinesi e la storia (apparentemente) principale finisce infatti per contenere altre storie e nuclei tematici. Anche qui i titoli di testa (gli ultimi e definitivi) sembrano esplicitare ed anticipare quello che il racconto diventerà e così le zucche stavolta non risorgono né bruciano ma generano al loro interno altre zucche.
Dopo lo scioccante attacco iniziale la storia riprende quattro anni dopo, come sempre alla vigilia di Ognissanti ma, stavolta, dentro un’atmosfera quasi dimessa e priva dell’attesa magica e spettrale tipica della festa. La Haddonfield inquadrata in “Ends” non è quella dei campi lunghi e delle siepi geometriche alla Carpenter ma una cittadina fatta di autorimesse, ponti, fogne e scorci di strade percorsi nella notte. E sebbene i vialetti siano ancora quelli addobbati con zucche e fantasmi, sulle celebrazioni di fine Ottobre adesso pare essersi depositata una coltre di polvere gialla che ha più l’opacità dell’arido che i bagliori dorati dell’autunno. Il Male, dopo lo sconvolgente fatto di cronaca dell’incipit, si è fatto endemico e non è più quel morbo che si propaga incontrollato dentro la massa, ma un malessere diffuso e cronicizzato, quasi generato dall’assenza del vero killer. The shape intanto è arretrata nell’ombra, vivendo (realmente e metaforicamente) nei recessi fognosi della cittadina e alimentandola in forme diverse. E’ bullismo, rancore, depressione, ma anche il capro espiatorio di chi ha perso i propri affetti e, soprattutto, è quel bisogno insopprimibile e collettivo di un “mostro”. E sarà proprio questa Haddonfield cupa e amorale che ne partorirà uno nuovo, abusando stoltamente di uno dei suoi “figli” più fragili, di quella figura mite, emarginata e straziata da un pesantissimo senso di colpa nota a tutti come Corey, il babysitter omicida. E sarà proprio Corey, catalizzatore e al tempo stesso nutrimento per the shape, a consentire a Michael Myers di risalire le fogne e recuperare le forze in vista del confronto finale con la “sua” Laurie. Perché Halloween, comunque sia iniziato, non può che concludersi con loro due, protagonisti di quella che potrebbe essere definita ormai una sorta di teomachia.
“Halloween Ends” è probabilmente il capitolo più difficile della saga, quello che assume sulle sue spalle un duplice compito: da un lato chiudere in modo coerente l’arco narrativo originario e contemporaneamente portare a compimento la sua riflessione sul Male e sull’America moderna. Per chi scrive David Gordon-Green è riuscito egregiamente in entrambi gli scopi. Pur consapevole delle reazioni che questo progetto (in fieri e al tempo stesso in conclusione) gli avrebbe procurato presso il fanbase più intransigente (che puntualmente ha reagito), il regista, confortato dalla libertà creativa concessagli dal produttore Jason Blum, ha effettuato una scelta innovativa (analogamente a quanto accaduto con il capitolo III, episodio unico di un’ idea non più proseguita), rinunciando per oltre metà della narrazione alla maschera e concentrandosi sul ritratto di un loser che sembra uscire da un film indie. La vicenda di Corey, seppure narrativamente funzionale alla risurrezione finale di Michael Myers, non può essere liquidata come la storia di un copycat qualsiasi, ma rappresenta piuttosto l’acme drammaturgico di quel clima di violenza provinciale che è affiorato progressivamente nei due capitoli precedenti. E la violenza qui diviene sia il vaso linfatico che alimenta la vendetta personale del babysitter contro ogni bullo (famiglia compresa) che il nutrimento per la carcassa umana necessaria a the shape. Il passaggio di consegne dal primo alla seconda (con la maschera umana di Corey praticamente gettata via per lasciare nuovamente posto a quella di Myers) risente forse di una certa sbrigatività e non rende empaticamente giustizia alla uscita di scena di un personaggio così complesso e dolente (probabilmente il primo psicologicamente approfondito in tutta la saga). Ma l’esigenza della “fine” (e del mainstream) richiede anche il ricorso alla brutalità e così Gordon Green sceglie di recidere questo cordone della storia concentrando, giustamente, tutta la sua attenzione su Laurie e sul suo riscatto personale (che contestualmente diviene redenzione per l’intera Haddonfield nella potente sequenza del “funerale” cittadino), e scegliendo di ripercorrere, nell’atteso momento del corpo a corpo conclusivo fra i due antagonisti, passaggi e dettagli del modello carpenteriano (dalla tenda che anticipa l’entrata del killer in casa fino ai ferri da maglia utilizzati per difendersi). Un omaggio necessario quello del regista che in questo modo salda idealmente il proprio debito con quel passato e dichiara il proprio amore verso un archetipo che per decenni ha ispirato generazioni di autori ed occupato il cuore degli appassionati del genere. La fine di Myers con Laurie che gli sussurra dolcemente “va tutto bene”, non è che il commiato amorevole che prima o poi tutti noi spettatori (adolescenti o giovani adulti ai tempi del primo “Halloween”) avremmo dovuto rendere a quella figura. Non è facile salutare i nostri miti (soprattutto negativi), perchè da sempre abitano dentro quella dimensione mitica e fuori dal tempo in cui ci sentiamo più vivi ed eterni anche noi. Ma forse neppure David Gordon-Green lo fa veramente.
Perchè se Laurie-Jamie Lee Curtis probabilmente resterà lì sull’ingresso della propria casa, finalmente in pace e con il sogno della fioritura dei ciliegi nel cuore, dentro casa c’è ancora la maschera di Myers, adagiata su un tavolo e illuminata dal sole del primo Novembre. E basta quel secondo per farci comprendere tutto.
Andrea Lupo
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