AVVERTENZA: CONTIENE SPOILER. NON LEGGERE PRIMA DI AVER VISTO IL FILM.
Si dice, dai tempi di Pinocchio, che le bugie hanno le gambe corte. Perché? Perché non possono correre troppo lontano e prima o poi le verità che nascondono verranno a galla. Però esistono anche bugie con le gambe lunghe, quelle che corrono veloci e si propagano, esattamente come il male che (normalmente) veicolano. “Gambelunghe”, non a caso, è l’allusivo nomignolo del serial killer (un grandioso Nicolas Cage) protagonista del cupissimo quarto film di Osgood Perkins, al secolo figlio di Anthony -Norman- Perkins. “Longlegs” è, a un primo sguardo, un thriller psicotico inzuppato nelle peci dell’horror, con la sua visione esatta e “perpendicolare” di un male vivo e in apparenza assopito fra villette ordinarie e filari secchi (un topos del genere ormai). Ma Longlegs è anche un’opera fortemente costruita sui concetti di bugia e di inganno e su tutte quelle imposture (luciferine) che da essi scaturiscono. L’assassino seriale che non ha bisogno di usare le (proprie) mani per arrivare alle vittime (che non sono semplicemente corpi ma, si badi, “pezzi” dell’istituzione fondativa per eccellenza e cioè la famiglia), è l’ulteriore involucro che il satanasso ha selezionato per il suo beffardo piano di dissacrazione (e conseguente distruzione) domestica. Un fantoccio laido fatto di carne (sorta di versione canuta e imborghesita di un ex-rocker maledetto), prontamente ri-utilizzato per distribuire porta-a-porta nuovi fantocci dal sembiante umano e rassicurante (inaspettati “presenti” da parte della chiesa non a caso supinamente accettati). Bambole che paiono bambini veri, nuovi inganni (e bugie) che corrono lesti da una villetta all’altra, corrompendone i capifamiglia dal passato, sotto le effigi silenziose di quei presidenti che intorno alle bugie e agli inganni ci edificarono interi mandati e lo spirito di una nazione. Demolizioni sistematiche di impalcature domestiche che iniziano, giustamente, dall’alto e quindi dai padri, ma che vengono interrotte e deviate (simbolicamente?) dalle madri, le uniche disposte a scendere a patti coi diavoli per un “bene” più grande. Una complicità “necessaria” quella che si instaura fra loro e l’oscuro caprone dagli occhi roventi come tizzoni. Conservativa, protettiva, “materna” nel significato più bello e terribile. E da tale complicità discendono nuovi sistemi di bugie destinati anch’essi ad essere smascherati (simbolicamente?) sotto le effigi di altri presidenti che dalle menzogne sono stati travolti e abbattuti. Un film di inganni reciproci dunque (ma anche di fraintendimenti interiori), che ritrova nella metafora del “maligno”, presente nella contro-cultura americana di fine anni ’60 (Manson & Co.) poi dilagata nel cinema dei primi anni ’70, la falda ideale dentro cui immergere il proprio sottinteso cri(p)tico e politico. Radiografia inconsapevole di un disfacimento morale colto in stato ormai “troppo” avanzato (come la famiglia putrefatta rinvenuta sotto le lenzuola), Longlegs sembra volerci dire, assai nichilisticamente, che un po’ tutte le istituzioni americane (famiglia, stato, forze investigative), quando non falliscono, al minimo galleggiano già in acque putrescenti. E il presente (che nel film è emblematicamente già “passato”) non è sicuramente dei migliori. A governare resta solo il caos, quello che l’Idra, bestia satanica a sette teste citata dal Marc Bolan di “Get It on”, pare aver già disseminato ovunque e, come al solito, senza che ce ne accorgessimo. La verità, in fondo, è sempre stata (inascoltata) dentro gli accordi glam e sensuali di un riff di chitarra. Perchè il diavolo potrà pure nascondersi da tutti ma non potrà mai nascondersi dal rock. Non a caso è il suo genere preferito. Ave Satana…
Andrea Lupo
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