Uno dei film più importanti della stagione è diventato anche uno dei titoli più colpevolmente bistrattati dal pubblico e dalle giurie dei premi che contano. Fatto fuori già in sede di nominations agli Oscar (proprio come accaduto a “First Reformed” di Paul Schrader) dai troppi black power, mexican power, music power e perfino da Netflix (“Roma”, “La ballata di Buster Scrubbs”), piattaforma consacrata dai premi praticamente in ogni dove. Dall’ultimo Festival di Venezia, (in cui era in competizione accanto ai celebrati “La favorita” e “Roma” ma anche all’abbagliante “Suspiria” di Guadagnino) fino agli Academy Awards passando per i British Independent Film Awards, “Peterloo” di Mike Leigh è divenuto, suo malgrado, vittima di una clamorosa negligenza da parte dello stesso pubblico inglese a cui si rivolgeva e soprattutto della pigrizia della critica più “influente”, qui inspiegabilmente tiepida (qualcuno ne ha stigmatizzato l’eccessiva “verbosità”) ed evidentemente poco sensibile all’epica “liberal” veicolata dal film. L’indifferenza a cui è andato incontro il film pare richiamare beffardamente la medesima che per duecento anni è stata riservata dalle istituzioni inglesi (e perfino dai libri di storia) al massacro in esso narrato e cioè quello di St. Peter’s Field. Fu in quel di Manchester che un lunedì di mezza estate del 1819 (l’anniversario esatto cadrà il 16 Agosto di quest’anno) un comizio pacifico di radicali riformisti, variamente composto da tessitori di telai, contadini, operaie con famiglie e altri rappresentanti pacifici di quel ceto popolare che invocava l’equo riconoscimento di un’identità elettorale (al grido di “un uomo un voto”), fu fatto abortire nel sangue, quello scaturito dalle sciabolate di una cavalleria ubriaca e dalle fucilate degli Ussari della Corona, braccia armate al soldo di una magistratura bieca, livorosa e ossessionata dagli echi sediziosi francesi. Venne represso così, colpendo al cuore una manifestazione simbolica e festosa, quel laico e naturale moto di consapevolezza sociale che il popolo dell’Inghilterra del Nord, già vessato da una carestia conseguente al protezionismo delle corn laws (l’imposizione dei dazi sul grano che di fatto aumentavano il costo del pane per la popolazione interna) e da intollerabili iniquità giudiziarie (sentenze di morte pronunciate dai giudici sulla base di una risibile ragion di stato “divina”), aveva avviato silenziosamente fra i campi e i telai, ben servita dal supporto degli oratori ( in particolare quello del carismatico radicale Henry Hunt arrestato proprio durante il comizio) e sempre diplomaticamente distante da ogni possibile infiltrazione sediziosa (le armi furono rigorosamente bandite all’interno dello stesso movimento).
Il massacro, ordinato da un Comitato di magistrati tanto futili quanto gretti, venne rabbiosamente battezzato come “Peterloo” dagli stessi giornalisti dell’epoca presenti sul luogo, in memoria di quella Waterloo che solo quattro anni prima aveva segnato la disfatta di Napoleone (e il suo conseguente esilio) al carissimo prezzo del giovane sangue militare (ma il Duca di Wellington, vincitore a Waterloo, ne uscì premiato grazie a una buonuscita di 750mila sterline voluta dal Primo Ministro e votata dal Parlamento). Un evento fondamentale nella storia del riluttante riformismo inglese e che avrebbe impresso una svolta sotterranea importantissima al percorso per il raggiungimento del suffragio popolare e più in generale nella storia della democrazia rappresentativa. E se il comizio del campo di San Pietro costò la vita a 15 di quei partecipanti (compreso un neonato pestato dalla calca), provocando mutilazioni e ferite per oltre 600 di loro (oltre alle lesioni “interne” inferte al sentimento pacifico del movimento), una targa circolare su un muro del Radisson Hotel è tutto ciò che oggi inadeguatamente lo ricorda. Mike Leigh magnifico cineasta settantacinquenne dalla solidissima carriera (“Segreti e bugie”, “Turner”, “Il segreto di Vera Drake”) e narratore “umanista” integro e mai conciliato, con “Peterloo” compie un gesto cinematografico di esemplare levatura morale (grazie anche al supporto degli Amazon Studios produttivamente più coraggiosi rispetto al blasonato e protezionista concorrente Netflix), segnando il suo personalissimo discorso d’autore con un’opera definitiva per rigore, stilizzazione visiva e afflato sociale. Il suo capolavoro probabilmente.
Senza ricorrere a facili didascalismi (neppure quelli “riassuntivi” da titoli di coda) o ad altro genere di condoni narrativi, il regista trasfigura il naturalismo estetico della sua rappresentazione storica e storiografica (l’impegnativa lezione pittorica del precedente “Turner” non è passata invano) in scomoda e rigata superficie riflettente di una sempre irrisolta contemporaneità politica. Che poi sarebbe quella di una democrazia destinata a morire ciclicamente dentro ogni episodio repressivo ma anche a risorgere in forma di nuovo ideale all’indomani dello stesso. Accade ieri come oggi, fra nuova giustizia e inediti giustizialismi, fra democrazie illusorie e iniquamente premiali (le generose concessioni al duca vittorioso ma non al popolo stremato dalla fame reiterano lo schema attuale dei privilegi intonsi), tra una stampa libera e un’altra ignorata (ma dalle macerie di Peterloo nacque anche il quotidiano progressista The Guardian), tra una privacy malferma (si intercettava strategicamente anche duecento anni fa) e la granitica ragion di stato paternalistica, sempre ottriata e mai sanamente “laica”. Lassù i laidi e incapaci regnanti (qui Giorgio IV erede del pazzo Re Giorgio) incorniciati dalla storia e dai merletti replicano poi, insieme ai due poteri legislativo e giudiziario, dinamiche ancora tristemente attuali tipiche delle istituzioni, ontologicamente ma soprattutto psicologicamente distanti dal cosiddetto “paese reale”.
Una simile riflessione libertaria coagula sì partendo dagli eventi specifici di Peterloo (impaginati, sublimati e restituiti qui anche nello loro significato archetipico) ma non potrebbe risultare tanto potente ed emotivamente coinvolgente se non grazie al controcanto offerto da quel magnifico affresco corale ed intimista costruito da Leigh intorno al suo popolo. Emaciato, dimesso e nato già “sconfitto”, definito esteticamente sia dalle penombre smorzate delle cascine che da un inedito lucore, da quella luce che irradia di speranza le migliaia di volti che si preparano ignari a quel lunedì (di sangue). Il regista li ama tutti i suoi personaggi, da quel soldatino di piombo che vaga spaesato sui campi di Waterloo e che attraversa la storia come fosse la sua coscienza sociale innocente, fino alle donne che vegliano la casa e barattano pasticciotti per uova, dando sostentamento, linfa e soprattutto un midollo ai propri fragili nuclei familiari. “Avrà ottant’anni nel 1900” dice la moglie a suo marito riferendosi alla loro neonata e proiettando così idealmente su quella creatura le aspettative di un mondo migliore, individuato come sempre dentro l’orizzonte temporale di un nuovo inizio secolo. Leigh riesce a catturare un intero moto emotivo e insieme collettivo grazie a una frase semplice e disarmante come questa, creando un contrasto intensissimo fra la delicatezza delle aspirazioni individuali e la brutalità che invece le annienterà il giorno dopo ed individuando la sostanza universale nelle tenui sfumature del particolare. E’ realmente un pittore del cinema lui perché restituisce definitivamente a quei tratti di pennello usciti da un incisione lo spessore e la dignità che spetta loro in quanto uomini e donne. Una padronanza visiva delle emozioni la sua che trapassa dalla contemplazione paesaggistica fino all’elegia intimista, per mutare infine in violento affresco “verista” durante la concitata, terribile sequenza della repressione. Un altissimo momento di cinema filtrato da polvere, sangue e stordimento, segnato da quel breve quanto già indimenticabile carrello che chiude l’insostenbile massacro e sigla idealmente la circolarità di eventi destinati a ripetersi. Da encomio l’intero splendido cast privo (fortunatamente) di star, volti noti o poco autentici. L’ultimo giudizio però va doverosamente speso per quella che Leigh ha reso probabilmente la protagonista assoluta dell’intero film: la parola. Perché “Peterloo” è un film fatto di dialoghi, fittissimi, intensi e segnanti, un’opera in cui la parola sembra ritrovare la sua funzionalità cinematografica più pura, diventando movimento, vettore dell’azione, elemento determinante della stessa strategia narrativa e tensiva. Probabilmente è stato ignorato (o frainteso) dai più proprio per questa sua formale anti-spettacolarità che invece ne costituisce proprio il punto di forza (la tensione del film, scandita dai dialoghi delle riunioni e da meschine cospirazioni istituzionali che fendono come fioretti, è elemento palpabile e sempre in crescendo). In un’epoca come l’attuale in cui le orazioni di tutti finiscono per produrre “democraticamente” solo frastuono, il film di Mike Leigh commette il “peccato” capitale di osare un discorso, impiantando il proprio paletto sulle coscienze, osando smuovere l’oblìo della terra con la semplice forza dei volti, dei fatti e soprattutto delle parole. Per questo non gli sono necessarie altre didascalie prima dei titoli di coda. Perchè la storia che racconta è ancora tremendamente aperta.
Andrea Lupo
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