AD ASTRA, le asperità oltre le stelle

Per aspera ad astra, attraverso le difficoltà fin verso le stelle. Questo il motto, l’incitazione, il viatico. Ma se il viaggio fosse invece al contrario? Se attraverso le stelle si giungesse solo a nuove asperità e dolore? Con la rassegnazione al posto della gloria e il bagliore di una cometa invece della lux aeterna nello spazio ? L’ultimo film di James Gray (Two Lovers, Civiltà perduta) non è un’ode al vittorioso ma, probabilmente, un’elegia sulla sconfitta. Solenne, mesta e giustamente autocosciente. Un’invocazione interiore che l’astronauta Brad Pitt rivolge a se stesso (né a Dio né al Padre quindi) e di cui conosciamo già, come lui, la nuda risposta. Non occorre un viaggio per aspera per comprendere una malattia esistenziale che ha già corroso l’anima, corrotto l’infanzia e avvelenato il presente dell’astronauta che non supera gli ottanta battiti al minuto (neppure quando è in caduta libera dallo spazio). Però è necessario attraversar le stelle per riconoscere l’esistenza della sofferenza e restituire ad essa dignità, ponendosi al cospetto della fredda e muta perfezione dei corpi celesti in tutta la propria commovente e circolare imperfezione umana. E’ la strada (per astra) per giungere a una cometa paterna (ad aspera) che ha lasciato dietro di sé appena una scia vaporosa di rimpianti e solitudine, con l’affetto imbrigliato per sempre negli strati più spessi della chioma. E’ questo l’umanesimo coerente di un regista che non lavora sui generi per sterilizzarli rispetto alla propria componente spettacolare (“Ad astra” è pieno di sequenze mirabili almeno quanto “ Civiltà perduta” è impregnato del miglior classicismo avventuroso), ma li plasma da dentro per restituirne una gravitas più psicologica e letteraria. E invero riportandoli alla loro essenza cinematografica più pura.

“Ad astra” non fa eccezioni. Non è, come potrebbe sembrare ad uno sguardo fin troppo superficiale, un impudente catalogo di citazioni tratte dal miglior cinema di fantascienza sorto a cavallo fra i due millenni, ma piuttosto una sobria e partecipata decostruzione (anche visiva) dello stesso. Per aspera sulla luna, il sogno sognato del secolo scorso, celebrazione dello slancio pioneristico dell’uomo, luogo di approdo del first man ieri e prima tappa obbligata del viaggio dell’astronauta Pitt. Peccato che quella falce illuminata sia giusto una pallida scimmiottatura della terra ove è possibile intravedere solo replicazione, mercificazione e l’eco di una (ennesima) guerra per le risorse. Un piccolo passo per l’uomo, il solito passo per l’umanità. La rabbia domina sempre e ovunque. Accade anche nello spazio dove la risposta (Alien?) a una chiamata di soccorso si risolve in una inattesa aggressione animale. Feroce, sanguinosa, forse perfino inevitabile. Contrappasso darwiniano o naturale deriva scientifica? A Gray non interessano le risposte ma soltanto sconvolgerci con quella visione rovesciata di “2001” in cui le scimmie hanno (ri)preso il sopravvento e agli umani toccano pillole di (de)stabilizzazione umorale. Per aspera sotto Marte, tra  polveri e ossido di ferro che infuocano il paesaggio e un ultimo avamposto umano in cui, per non impazzire, sono necessarie proiezioni naturali, tra stormi di uccelli e lo schiudersi delle corolle. Stazione di lancio definitiva verso il sistema solare e l’oltre, porto che vorrebbe traghettare ad astra i nuovi esploratori lasciandosi dietro voragini, faglie o increspature dell’umana condizione ma che conduce invece a un palindromo di vecchie solitudini e nuove disillusioni. E quando il viaggio volge alla conclusione tra gli astri ci attendono ancora nuovi aspera. Non c’è Vega però ad accompagnare il percorso, né padri-proiezioni (Contact) a sciogliere gli interrogativi sulla vita aliena o a corroborare le assenze emotive. Ad accoglierci c’è piuttosto una rabbia triste e implosa, trattenuta a stento dalla lucidità scientifica e screziata di follia. Il livore stagnante dei delusi e dei perdenti. Ed è un rancore familiare che disarma e commuove (Pitt ma anche tutti noi) attraverso lo sguardo umido di Tommy Lee Jones, rigagnolo di lacrime ormai prosciugate dentro solchi di rughe immobili. Ad astra dunque ma solo per scoprire l’anima scabra e corrugata di un padre che custodiva le medesime asperità del figlio. La rinascita per tutti è a un prezzo alto e assume le forme di un broncio infantile impresso definitivamente sul volto di un vecchio poco prima del salto e di un ultimo (forse) slancio d’amore. La scia di una cometa che non si è mai fatta stella. L’eredità dannata di chi non ha saputo amare prima del tempo.

Andrea Lupo

 

 

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